1962 - Ajax e lanciere Bianco

Il Lanciere Bianco: quando la pulizia diventava un’epopea

Negli anni del boom economico, la pubblicità italiana trovò nei simboli cavallereschi la metafora perfetta della modernità domestica. L’immagine dell’“AiAX Lanciere Bianco” – cavaliere in armatura su destriero candido, lancia in resta contro lo sporco – resta una delle più iconiche tra le campagne dei detergenti degli anni Sessanta. Il marchio Ajax, nato negli Stati Uniti nel 1947 e portato in Italia dalla Colgate-Palmolive, incarnava la promessa di un bianco impeccabile e di un pulito tecnologico, “più forte dello sporco”, come recitava lo slogan. In un’epoca in cui la lavatrice diventava simbolo di progresso, Ajax si presentava come il campione della modernità, armato di “Blu Ultramarino e Super Perborato”, sostanze che evocavano potenza e scienza al servizio della casa. Il manifesto, con i suoi colori vivaci e il contrasto tra l’epica medievale e l’ottimismo del boom, racconta un’Italia che scopre il comfort domestico e lo celebra come una conquista. Oggi quella figura del Lanciere Bianco, eroico e brillante, è un frammento prezioso della storia della pubblicità e del costume, testimonianza di un tempo in cui anche un detersivo poteva farsi leggenda.

1970- Agip e Raffaella Carrà

Raffaella Carrà e l’Agip Big Bon: quando il pieno era di energia e stile

Con la campagna “Freccia a destra, entra all’Agip”, l’Italia dei tardi anni Sessanta scopre un nuovo modo di raccontare la modernità. L’Agip (Azienda Generale Italiana Petroli), marchio storico poi confluito nell’ENI, trasforma la semplice sosta al distributore in un’esperienza di efficienza, servizio e ottimismo nazionale.

Protagonista dello spot è Raffaella Carrà, in tuta nera lucida e con la celebre freccia arancione sul petto: un’icona di femminilità televisiva e indipendenza, simbolo di un Paese che corre verso il futuro. La sua presenza carismatica, unita all’ironia dello slogan, restituisce l’immagine di una donna moderna, autonoma ma perfettamente a suo agio nel mondo maschile dei motori.

Dietro di lei, una schiera di addetti in divisa gialla e blu, allineati come in una parata industriale, esalta l’idea di disciplina e professionalità “all’italiana”. Il nome Big Bon richiama il programma promozionale con cui l’Agip premiava i clienti più fedeli, anticipando di decenni il concetto di fidelizzazione e marketing esperienziale.

La grafica brillante, il tono confidenziale del copy e la teatralità della scena rendono questa pubblicità un perfetto esempio di ADV italiana post-Carosello, dove energia, moda e cultura pop si fondono in un linguaggio vivace e ottimista. L’Agip non vende più soltanto benzina, ma un modo di vivere contemporaneo, dinamico e pieno di fiducia nel domani.

Rivederla oggi significa ritrovare l’Italia che credeva nel progresso, nel design e nel sorriso di Raffaella Carrà: un volto che, anche in pubblicità, sapeva accendere entusiasmo e movimento.

1967- Benetton la maglia che attrae

La maglia Benetton attrae: l’audacia elegante dei primi anni del marchio trevigiano

Nella seconda metà degli anni Sessanta, quando la moda italiana iniziava ad affacciarsi alla modernità, la giovane azienda Maglierie Benetton di Ponzano Veneto firmò una delle sue prime campagne destinate a lasciare il segno. L’immagine — un uomo assorto nella lettura, vestito con una semplice maglia, e alle sue spalle una donna nuda che lo osserva — si accompagnava al claim diretto e ironico: “La maglia Benetton attrae.”

Provocatoria ma sofisticata, la pubblicità giocava sul contrasto tra quotidianità e seduzione, ribaltando i ruoli tradizionali: non è l’uomo a esercitare fascino, ma il capo che indossa. Una scelta audace per l’Italia di quegli anni, ancora legata a modelli comunicativi più casti e descrittivi. Il messaggio, asciutto e allusivo, anticipava la cifra stilistica che farà di Benetton uno dei marchi più riconoscibili del mondo: semplicità formale, ironia e rottura degli schemi.

Fondata nel 1965 dai fratelli Luciano, Giuliana, Gilberto e Carlo Benetton, l’azienda muoveva allora i primi passi come piccola realtà di maglieria artigianale. Ma già con queste campagne dimostrava un intuito pubblicitario raro, capace di usare la sensualità come linguaggio di modernità. Il logo con il nodo — simbolo dei legami familiari e della trama dei fili — compariva accanto al nome “Maglierie Benetton – Ponzano (Treviso)”, a suggellare l’origine veneta di un marchio destinato a espandersi a livello globale.

Quell’immagine, oggi un classico della pubblicità vintage, segna l’inizio di un percorso che porterà Benetton, negli anni successivi, a sostituire l’erotismo con il colore, e la seduzione con la comunicazione sociale. Ma in quel momento, tra gusto borghese e spirito pop, la maglia Benetton cominciava davvero ad “attrarre” — non solo sguardi, ma un nuovo modo di intendere la moda e la pubblicità.

1970 - FACIS_ Ventanni. Garantito che ti guardano: la provocazione elegante della Facis negli anni Settanta



Negli anni in cui l’Italia cambiava volto e l’uomo moderno cercava nuovi modi di affermarsi anche attraverso l’abbigliamento, la Facis di Torino lanciava una delle campagne più audaci e memorabili della moda maschile. La pubblicità della linea “Ventanni”, diffusa intorno al 1970, è rimasta nella memoria collettiva: un giovane uomo, impeccabile nel suo abito Facis, posa con sicurezza davanti a un gruppo di suore che lo osservano con curiosità. Lo slogan, diretto e ironico, recita “Ventanni. Garantito che ti guardano.” Una frase che sintetizzava alla perfezione lo spirito del tempo e il desiderio di una generazione di essere notata, distinta, visibile.
La Facis – acronimo di “Fabbrica Abiti Confezionati in Serie” – nacque a Torino nei primi decenni del Novecento, quando il vestire maschile era ancora dominio delle sartorie artigianali. Con l’ingresso nel Gruppo Finanziario Tessile, divenne un simbolo dell’eleganza industriale italiana, portando il concetto di abito confezionato a livelli di qualità e stile fino ad allora impensabili. Negli anni Sessanta e Settanta, l’azienda seppe aggiornarsi ai tempi e parlare a un pubblico più giovane, lanciando la linea “Ventanni”, pensata per chi voleva distinguersi senza rinunciare alla raffinatezza.
Quella pubblicità fu un piccolo colpo di genio. Mettere un giovane vestito Facis davanti a un gruppo di suore significava giocare con i contrasti, con un’ironia sottile e dissacrante ma mai volgare. Il messaggio era chiaro: un abito Facis non passa inosservato. In un solo scatto si raccontava un’Italia diversa, più libera e più ironica, che guardava al futuro con leggerezza e stile.
La campagna “Ventanni” resta oggi un simbolo della creatività pubblicitaria italiana degli anni Settanta, capace di unire eleganza, provocazione e senso del costume. Un documento di un’epoca in cui anche un semplice abito confezionato poteva diventare manifesto di libertà e modernità. E sì, aveva ragione lo slogan: con un abito Facis Ventanni, garantito che ti guardano.




1984 - Quando la Bianchi portò la BMX nel sogno italiano degli anni ’80


C’era un tempo in cui bastava un grido per sentirsi invincibili. «Ehi! Pilota Bi.MX: salta, vola, vinci i tuoi 400 metri!» — così tuonava, a caratteri cubitali e azzurro metallizzato, una delle pubblicità più iconiche del 1984. La firmava la Bianchi, la più antica fabbrica di biciclette italiana, nata nel lontano 1885 ma capace, quasi un secolo dopo, di reinventarsi per parlare ai ragazzi cresciuti con Drive In, i videogiochi e la musica dei Duran Duran.

Era il tempo della BMX, la “bici da cross” che arrivava dagli Stati Uniti carica di libertà, adrenalina e polvere da pista. E la Bianchi volle essere della partita. Nel pieno del boom, tra il 1982 e il 1985, la casa milanese lanciò la linea Bi.MX, un nome semplice ma sonoro, che univa in sé bicycle e motocross. La pubblicità del 1984, oggi considerata una piccola opera d’arte illustrata, racchiude perfettamente lo spirito di quel decennio: energia, eroismo, movimento e identità personale.

In primo piano, un giovane corridore disegnato a pennello, casco MPA, tuta Peperoncino e mani guantate. Sullo sfondo, una folla in festa, mentre la ruota anteriore resta sospesa nell’aria, a fissare l’attimo esatto del salto. È una sospensione dinamica, quasi cinematografica, figlia di un’epoca in cui il colore si costruiva a colpi di acquerello e non di pixel.

Il testo dell’annuncio è un piccolo capolavoro di retorica motivazionale: “Tu e la tua Bi.MX siete una sola cosa. Lei, la ‘macchina’, disposta ad ogni impresa; tu, il pilota, pronto a volare.” È l’equivalente sportivo dei sogni di libertà motorizzata che la pubblicità italiana aveva già raccontato con Vespa, Zündapp o Aermacchi. Solo che ora il motore è dentro di te. “La grinta del cross con la forza dei tuoi muscoli” recitava lo slogan finale, trasformando un prodotto sportivo in una dichiarazione d’intenti. L’eroe degli anni ’80 non guida un bolide: pedala con volontà e coraggio.

La grafica, a metà strada tra fumetto e televisione, sembra uscita da una tavola di Skorpio o Intrepido: colori accesi, linee nervose, espressioni esaltate. In basso, il logo di Retequattro ricorda come la BMX fosse ormai entrata anche nel mondo della TV, tra sigle elettroniche e spot da trenta secondi. Era il trionfo del linguaggio crossmediale, quando la bicicletta non era più solo un oggetto, ma un’esperienza da condividere tra amici, schermo e strada.

Per la Bianchi, regina delle corse su strada e dei pedali da gran premio, la linea Bi.MX rappresentò una svolta d’immagine. Prodotte in diverse versioni — Super Kid, Junior, Senior — le nuove biciclette erano pensate per tutti i livelli di esperienza, dal principiante al piccolo campione. Telai in acciaio leggero, ruote da venti pollici, sella ribassata, freni potenziati e colori vivaci: ogni dettaglio parlava di un nuovo modo di intendere la bicicletta, più ludico, personale e americano. Era il segno di un’Italia che cambiava, meno legata al mito del ciclismo eroico di Coppi e Bartali e più attenta alla cultura pop, alle gare nei campi sterrati e alle mode da skate park.

Negli anni Ottanta la pubblicità non si limitava a vendere: iniziava. Chi comprava una BMX non acquistava una bicicletta, ma un ruolo, un’appartenenza, un’idea di sé. “Vinci i tuoi 400 metri” non parlava solo di una corsa, ma di un percorso di crescita, della voglia di superare limiti e paure. Ogni salto, ogni curva parabolica diventava un piccolo atto di coraggio quotidiano. E la Bianchi, con il suo linguaggio esaltante ma pulito, seppe rendere quell’esperienza eroica e allo stesso tempo accessibile.

Oggi quella pagina pubblicitaria, con il suo grido entusiasta e i suoi colori vivi, ci restituisce un’epoca ingenua ma piena di speranza. Una stagione in cui la pubblicità parlava la lingua del sogno, e in cui bastava una bici per sentirsi piloti. La Bianchi Bi.MX resta così un simbolo perfetto degli anni ’80 italiani: sportiva, veloce, colorata e libera. E ancora oggi, sfogliando quella pagina ingiallita, sembra quasi di sentire la voce dell’annunciatore gridare tra i colli di carta patinata:
«Ehi! Pilota Bi.MX… salta, vola, vinci i tuoi 400 metri!»



1975 - “Sembra non abbia mai visto una Gilera”

Quando la pubblicità italiana imparò a giocare con l’ironia, l’eros e la libertà

C’è una cabina telefonica rossa su una spiaggia assolata, una ragazza seminuda che parla al telefono, e una moto blu lucente che attira gli sguardi. Poi, la battuta perfetta: “Sì pronto! C’è un tizio qui fuori che guarda da un’ora; sembra non abbia mai visto una Gilera.” Bastano queste poche parole per evocare l’essenza di un’intera stagione creativa: quella della pubblicità italiana degli anni Settanta, quando l’ironia, la sensualità e la dissacrazione entrarono di diritto nel linguaggio dell’advertising.

L’annuncio della Gilera – databile intorno al 1975 – è uno di quei manifesti che raccontano più di un prodotto: raccontano un Paese. La storica casa motociclistica di Arcore, fondata nel 1909 da Giuseppe Gilera e gloriosa protagonista delle corse mondiali negli anni Cinquanta, in quel decennio cercava di reinventarsi. L’Italia stava cambiando pelle, la gioventù cercava libertà e leggerezza, e la moto non era più solo un mezzo, ma un simbolo di indipendenza. Gilera, come altri marchi del tempo, comprese che non bastava parlare di motori: bisognava parlare di emozioni, di stile, di desiderio.

E così la pubblicità si fece audace, ironica, seducente. La frase dell’annuncio è un piccolo capolavoro di doppio senso: tutti sanno che il “tizio” non sta guardando la moto, ma la ragazza. Tuttavia il messaggio ribalta la prospettiva: è la moto, non la donna, a catalizzare l’attenzione. In quel gioco linguistico si riflette l’intera filosofia della comunicazione di quegli anni, capace di alludere e far sorridere, di provocare senza scandalizzare. L’eros diventa ironia, il desiderio si trasforma in leggerezza, la pubblicità smette di prendersi sul serio.

Non è un caso che la scena sia ambientata su una spiaggia, simbolo di libertà e vitalità, e che la cabina telefonica rossa – un’icona importata idealmente dalla Swinging London – introduca una nota pop e internazionale. L’immagine è studiata con cura: colori saturi, composizione pulita, luce forte, un equilibrio tra sensualità e distacco che la rende più ironica che provocante. È la rappresentazione perfetta di un’Italia che aveva voglia di respirare, di sorridere, di prendersi gioco dei propri moralismi.

Negli anni Settanta la pubblicità italiana visse un periodo di straordinaria creatività. Le agenzie sperimentavano linguaggi nuovi, spesso influenzati dal cinema, dalla fotografia e dal fumetto. Le campagne di Campari, Lines, Amaro Ramazzotti o Autobianchi condividevano la stessa voglia di rompere gli schemi, di raccontare la quotidianità con un tocco di malizia e autoironia. L’idea che una marca di motociclette, un settore tradizionalmente “maschile”, potesse usare il doppio senso come chiave narrativa, dimostrava quanto il confine tra marketing e cultura pop si stesse ormai assottigliando.

Quell’immagine Gilera è più di una réclame: è un piccolo racconto, un frammento di costume. L’uomo che guarda è lo spettatore stesso, catturato dal gioco ironico e forse un po’ smascherato nella sua curiosità. La ragazza, disinvolta e sorridente, ribalta il ruolo femminile tradizionale della pubblicità: non è oggetto passivo, ma protagonista che ironizza sulla situazione, come se avesse capito tutto prima degli altri. E la moto, sullo sfondo, diventa simbolo di modernità, di energia, di libertà giovane.

In quell’epoca l’advertising non aveva paura di osare, e spesso proprio l’irriverenza era la sua forza. Oggi una pubblicità simile susciterebbe dibattiti e polemiche, ma allora rappresentava una forma di liberazione collettiva. Era il segno di un’Italia che imparava a ridere di sé stessa, a flirtare con i propri tabù, a usare la comunicazione come specchio del costume.

Riguardando oggi quella pagina, la battuta “Sembra non abbia mai visto una Gilera” conserva la sua ironia fresca, diretta, senza volgarità. È l’istantanea di un tempo in cui anche una semplice inserzione poteva essere una piccola opera di cultura pop. Dietro una battuta da spiaggia e una cabina rossa c’è un mondo intero: la fiducia nel progresso, l’allegria un po’ sfrontata di una generazione, e soprattutto la consapevolezza che la pubblicità, per funzionare, deve prima di tutto far sorridere.





1977 – La freschezza come promessa : Fa.

C’è qualcosa di magnetico in questa immagine del 1977: una ragazza che si tuffa sott’acqua, catturata in un movimento elegante e libero. È la campagna Fa, marchio di Henkel, e sembra raccontare tutto ciò che la pubblicità degli anni ’70 cercava: corpo, libertà e sensazione.
Il claim – “Ora il regalo più fresco” – introduceva una promozione legata all’acqua di colonia “Lime dei Caraibi”. Ma più del testo, era l’immagine a parlare: l’acqua limpida, la luce morbida e il corpo in movimento trasmettevano un’idea di freschezza naturale, quasi sensuale, senza bisogno di parole.
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Henkel e la nascita di Fa
Il brand Fa nasce in Germania negli anni ’50, da un’intuizione di Henkel: portare sul mercato un sapone “diverso”, più profumato, più esperienziale. Negli anni ’70, la linea si espande con deodoranti, bagnoschiuma e colonie, diventando sinonimo di igiene giovane e moderna.
In un’epoca in cui la pubblicità europea si stava liberando dai cliché domestici, Fa punta su un linguaggio visivo sensoriale: acqua, pelle, natura, e quella leggerezza tipica dei nuovi anni liberi. Il bagno o la doccia diventano momenti di piacere, non più solo di pulizia.
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Un’idea di libertà
La campagna del ’77 si inserisce perfettamente in quel clima: la donna non è più la casalinga perfetta ma una figura attiva, sportiva, indipendente. Il tuffo non è solo un gesto atletico, ma un simbolo di rinascita e libertà personale.
Lo sguardo è assente, la sensualità è suggerita, mai esplicita: una comunicazione che oggi definiremmo “pulita ma carica di energia.



1982 - Fiat Argenta




Siamo nel 1981 e la Fiat decide di dare un tocco di eleganza e modernità alla sua ammiraglia: nasce la Fiat Argenta, l’erede diretta della 132. L’immagine pubblicitaria lo dichiara con orgoglio — “Argenta: lussuosamente ‘2000’” — sintetizzando in uno slogan il sogno automobilistico dell’italiano medio di inizio anni Ottanta: avere una berlina comoda, potente e tecnologica, ma senza ostentare.

L’annuncio, firmato Fiat Auto S.p.A., punta tutto sul contrasto tra la sobrietà della vettura e l’ampio orizzonte naturale che la circonda: la Argenta, color champagne, si staglia contro un cielo azzurro e un paesaggio verde, evocando modernità e libertà. È l’Italia che cambia marcia, tra elettronica e comfort, senza rinunciare al gusto borghese per la solidità.

Sotto l’immagine, il linguaggio si fa tecnico e rassicurante: una lista dettagliata di optional — dal check-panel al volante regolabile in altezza, dagli alzacristalli elettrici alla chiusura centralizzata — dimostra che Fiat è entrata a pieno titolo nel decennio dell’automazione. Persino il termine “cut-off”, riportato con orgoglio, fa capire che la modernità è anche risparmio energetico e controllo elettronico.

Questa pubblicità appartiene a un periodo in cui la comunicazione automobilistica italiana cercava un nuovo equilibrio tra status symbol e razionalità, tra fascino e funzionalità. “Lussuosamente 2000” non è solo uno slogan: è un piccolo manifesto dell’ottimismo tecnologico che avrebbe definito gli anni ’80, quando bastava un nome cromato e una scritta elegante per far sognare un futuro già a portata di chiave.



Anni 60 e 70 - Parliamo amcora di Star il Doppio Brodo

 

Il doppio segreto di Star

Quando la pubblicità italiana scoprì il gusto della modernità

C’è stato un tempo in cui il brodo non era solo una cosa da cucinare, ma un’idea da comunicare. Era la metà degli anni Settanta e sulle riviste patinate faceva capolino una promessa semplice e rassicurante: “Solo Star ha il segreto del doppio brodo”. In quella frase si condensava mezzo secolo di cultura pubblicitaria italiana, passata dall’arte illustrata all’industria del consumo di massa, dalla retorica del progresso al linguaggio confidenziale della casa.

Nata nel 1948 a Gaggiano, alle porte di Milano, la Star capì molto presto che il suo vero prodotto non era solo il dado, ma l’immaginario che lo circondava. Con l’invenzione del “Doppio Brodo”, l’azienda trasformò un semplice concentrato di carne in un simbolo di efficienza domestica e di fiducia nel progresso. Non a caso, la cuoca sorridente che custodiva il baule verde — la “fata del brodo”, come qualcuno l’avrebbe chiamata oggi — divenne uno dei volti più riconoscibili della pubblicità italiana.

L’illustrazione di quella donna, rassicurante e moderna al tempo stesso, firmava le campagne su Epoca e La Domenica del Corriere accanto ai manifesti che proclamavano: “Il brodo? Io me lo faccio doppio”. Siamo nel pieno del boom economico: la cucina cambia, il tempo si accorcia, la pubblicità deve parlare alle nuove casalinghe della TV. Star lo capisce prima di molti altri marchi: semplifica, ironizza, colora.

A testimoniarlo, anche l’immagine — oggi deliziosamente retrò — del furgoncino Star che attraversa le vie italiane come un simbolo di efficienza industriale e fiducia nel futuro. In quel bianco e nero d’archivio si legge una promessa di modernità: la fabbrica che entra in casa, il marchio che diventa abitudine.

Negli anni successivi, tra gli Ottanta e i Novanta, Star rinnova il proprio linguaggio senza rinnegare la sua identità visiva: nasce il Dado Ricco, la cuoca torna in versione più luminosa, e la collaborazione con la ristorazione di qualità — come la celebre campagna con lo chef del ristorante “El Toula” — testimonia la transizione dal linguaggio della famiglia a quello del gusto.

Oggi quelle immagini, rilette con occhi vintage, raccontano molto più del prodotto: parlano di un’Italia che imparava a fidarsi della pubblicità, e di una pubblicità che imparava a parlare come una persona. Perché, dopotutto, senza quel “doppio brodo” non ci sarebbe stato neanche un futuro di comunicazione così saporito.






1977 - Le Caramelle charms Alemagma


Anno 1976. L’Italia è nel pieno del suo boom pubblicitario: sulle riviste patinate, tra un Carosello e l’altro, spuntano slogan che mescolano ironia, gusto e matematica. È il caso di questa deliziosa campagna Charms Alemagna, dove un professore distratto — con tanto di occhiali tondi, baffetti e lavagna piena di formule — viene “folgorato” non da un’equazione, ma dal gusto intenso di una caramella all’arancia.
Lo slogan, “raaggio per raggio per 3... aranci”, è un piccolo capolavoro di nonsense matematico, tipico dell’umorismo anni Settanta, quando la pubblicità sapeva prendersi gioco di sé stessa e del linguaggio tecnico. La battuta gioca sul doppio senso tra “raggio” (geometrico e solare) e “arancio”, evocando sapore, colore e solarità. Il tutto coronato dal payoff aziendale: “Gusto ad alta fedeltà”, un’espressione che strizza l’occhio alla tecnologia hi-fi di moda in quegli anni, ma applicata con arguta ironia a un prodotto dolciario.
Dietro il marchio, c’è la storica Alemagna, fondata a Milano nel 1921 da Gioacchino Alemagna e diventata, nel dopoguerra, una delle regine dell’industria dolciaria italiana. Dopo aver reso il panettone un simbolo nazionale, Alemagna allargò i suoi orizzonti al mondo delle caramelle, dei gelati e dei prodotti “da banco”. Tra questi spiccava proprio Charms, marchio americano importato in Italia negli anni ’60 e presto divenuto sinonimo di gusto brillante e confezione colorata.
Nel 1976 la ditta era già parte del gruppo SME/IRI, e investiva molto in pubblicità creativa

e di largo consumo. Questa campagna ne è un esempio perfetto: un’immagine semplice, ma studiata con cura, un tono scherzoso che strizza l’occhio al pubblico giovane, e un prodotto al centro della scena, senza troppi fronzoli.
Alemagna, allora come oggi, sapeva che per conquistare il consumatore serviva un’idea che facesse sorridere e venisse ricordata. E il professore con il gessetto e la caramella in mano, intento a confondere teoremi e agrumi, resta una delle immagini più gustose della pubblicità italiana degli anni Settanta.








1977 - Coca C0la Freakettona


Nel 1977 Coca-Cola firma una delle sue campagne italiane più iconiche: “Coca-Cola dà più vita”. Un claim semplice, immediato, capace di racchiudere in poche parole l’idea di energia, vitalità e gioia di vivere che il brand ha sempre cercato di trasmettere.
Il manifesto mostra una ragazza sorridente, seduta in modo informale, con jeans consumati e maglietta sportiva. Non una modella patinata, ma un volto vicino ai giovani dell’epoca: naturale, autentico, spontaneo. Tra le mani tiene la bottiglia di vetro, vero simbolo del marchio, che diventa elemento di riconoscimento universale e protagonista visiva assoluta.

Lo stile fotografico rompe con le rigidità del passato: niente pose artificiali o sfondi elaborati, ma una luce calda e un’inquadratura diretta che sembrano catturare un attimo di vita reale. La tipografia in rosso con profilo bianco, vivace e pop, riflette perfettamente lo spirito degli anni Settanta, strizzando l’occhio al mondo giovanile e alla grafica di strada.

La campagna, declinazione italiana dello slogan internazionale “Coke Adds Life”, divenne uno dei cavalli di battaglia di Coca-Cola anche nel decennio successivo, tanto da restare impressa nella memoria collettiva. In un’Italia in fermento culturale e sociale, il marchio non vendeva solo una bibita gassata, ma un’esperienza: un modo di essere, di vivere, di condividere.

Questa pubblicità del 1977 resta così un perfetto esempio di comunicazione emozionale generazionale, capace di legare un prodotto globale a un immaginario locale, facendo della Coca-Cola non soltanto una bevanda, ma un’icona di vitalità.

uriosità – “Coca-Cola dà più vita”

Lo slogan venne lanciato in Italia nel 1976 come adattamento del payoff internazionale “Coke Adds Life”.

Il claim ebbe un successo tale da essere riutilizzato per oltre un decennio, diventando una delle frasi pubblicitarie più ricordate dal pubblico italiano.

Negli spot televisivi dell’epoca, la canzone “Coca-Cola dà più vita” diventò un piccolo tormentone, accompagnata da immagini di giovani allegri, feste all’aperto e momenti di condivisione.

Le campagne erano mirate soprattutto ai giovani, posizionando la bibita come simbolo di freschezza, energia e socialità, in contrapposizione ad altri soft drink che puntavano solo sul gusto o sul prezzo.

Il successo dello slogan è testimoniato dal fatto che ancora oggi, a distanza di quasi cinquant’anni, molti italiani lo ricordano a memoria.







1986 - Parmalat, Tivulandia le figurine Anime e Isidoro

 

Negli anni ’80 la Parmalat non era soltanto un colosso dell’alimentare, ma un’azienda che aveva intuito prima di altri l’importanza di creare un vero e proprio ecosistema mediatico. Fondata a Parma da Calisto Tanzi, Parmalat aveva già costruito la sua fortuna grazie al latte a lunga conservazione, ma presto decise di investire massicciamente nella comunicazione, andando ben oltre la semplice pubblicità televisiva.

Da qui nasce il progetto di Euro TV, un network televisivo lanciato nei primi anni Ottanta e controllato direttamente dal gruppo Parmalat. L’idea era chiara: avere una rete nazionale per trasmettere cartoni animati, telefilm e intrattenimento popolare, e allo stesso tempo garantire alla Parmalat un palcoscenico privilegiato per i propri prodotti. Euro TV divenne presto un tassello strategico, e qualche anno dopo sarebbe confluita nel circuito Odeon TV, una delle esperienze più ambiziose della televisione privata italiana.

Accanto a Euro TV prese forma anche la casa editrice Ediblu, con sede a Parma e di fatto legata al gruppo. Il suo scopo era sfruttare l’ondata di popolarità dei cartoni animati trasmessi dalla rete, trasformandoli in album e figurine. Nasce così la collana Tivulandia, che raccoglieva i personaggi più amati dai bambini di quegli anni, creando un ponte perfetto tra lo schermo televisivo e il collezionismo da edicola. Le figurine Tivulandia pubblicavano soprattutto i protagonisti della fascia ragazzi di Euro TV, includendo personaggi come Uomo Tigre, Devilman, Gigi la Trottola, Remsie la Strega e molti altri.

La particolarità più sorprendente era che queste figurine anticipavano di anni il fenomeno anime e manga che, negli anni ’90 e 2000, avrebbe conquistato i collezionisti e appassionati di tutto il mondo. In altre parole, Parmalat, attraverso Tivulandia, proponeva ai bambini italiani i futuri cult del genere, trasformando in anticipo i personaggi animati in oggetti di collezione.

Il vero colpo di genio fu però l’acquisizione dei diritti italiani di Isidoro (Heathcliff), il gatto arancione protagonista di una serie animata americana. Parmalat lo trasformò in testimonial ufficiale: appariva negli spot, sulle confezioni dei prodotti e persino negli album di figurine Ediblu. Un personaggio goloso, divertente e “di pancia”, che incarnava alla perfezione l’immagine di un marchio pensato per le famiglie e per i bambini.

Non era solo una questione di cartoni e figurine: Parmalat entrò anche nel mondo delle promozioni con gadget allegati ai prodotti. Memorabili le raccolte “The Fabulous 80”, figurine distribuite direttamente con le merendine Parmalat. Oltre a raccogliere i personaggi più popolari, queste figurine avevano una funzione anticipatrice: annunciavano in anticipo fenomeni di costume come i Paninari, preludio alle successive collezioni Master che avrebbero dominato le edicole negli anni successivi.

Tutto questo disegnava un’operazione di marketing che oggi definiremmo brand entertainment: Parmalat non vendeva solo latte, ma un mondo fatto di televisione, cartoni animati, collezioni e personaggi. Una strategia integrata che rafforzava il marchio a più livelli, trasformando la quotidianità della merenda in un’esperienza pop e culturale.

Oggi, a distanza di quarant’anni, gli album Tivulandia, gli spot con Isidoro e le figurine Parmalat restano oggetti cult per i collezionisti, ma anche testimonianze di una stagione irripetibile in cui l’industria alimentare, la televisione e l’editoria popolare si fusero in un’unica, coloratissima macchina del marketing. La memoria di quei cartoni e dei loro personaggi, dalla coraggiosa figura di Uomo Tigre alle magie di Remsie la Strega, continua a vivere nei ricordi di chi li seguiva con entusiasmo, trasformando un semplice snack in un’esperienza di intrattenimento a tutto tondo.




1975 - Renault 5 Alpine

Tra le pubblicità automobilistiche degli anni Settanta una delle più memorabili è quella dedicata alla Renault 5 Alpine, introdotta con lo slogan “Non fatela arrabbiare”, che trasformava la percezione di una utilitaria rassicurante in quella di un’auto con carattere deciso. Il testo dell’inserzione raccontava la sua doppia natura: da un lato elasticità, maneggevolezza e facilità di guida come una normale Renault 5, dall’altro prestazioni sorprendenti: 94 cavalli a 6400 giri, punta di 180 km/h, 400 metri in 17 secondi e cambio a cinque marce, numeri che per una piccola cilindrata risultavano provocatori.
Questa pubblicità annunciava l’avvento di un modello che avrebbe inaugurato una nuova stagione: le compatte sportive. La Renault 5 Alpine, infatti, arrivò nel 1976, anticipando in qualche modo la Golf GTI e dimostrando che anche una utilitaria poteva regalare emozioni. La comunicazione insisteva sull’idea che l’auto fosse domestica e rassicurante e, al momento giusto, potesse rivelare un’anima ribelle. Il titolo, con tono quasi poetico, rendeva la macchina un essere con carattere proprio, pronto a “mostrare i denti” se provocato.
L’impatto visivo della pagina era essenziale: la silhouette scura della vettura su fondo chiaro, l’abitacolo rosso a suggerire sportività, nessuna scenografia distraente, tutto lasciato alle parole piene di dati tecnici, consumi, accelerazioni. Era l’epoca in cui si parlava all’acquirente con precisione, numeri e promesse concrete, non solo con suggestioni visive. Eppure il titolo apriva uno spazio immaginativo: una macchina quasi viva, che sapeva emozionare.
Dietro queste righe si nascondono curiosità interessanti: in Francia e Italia il nome sportivo era “Alpine”, evocando la tradizione della A110, ma in Inghilterra il nome fu cambiato in “Gordini” per ragioni legate al marchio. La R5 Alpine restava accessibile, ma apriva la strada verso versioni sempre più estreme, come la futura Renault 5 Turbo, destinata a diventare una leggenda dei rally.
Rileggendo oggi quella pagina pubblicitaria si coglie il fascino di un’epoca in cui l’automobile non era solo mezzo ma simbolo di stile e passione. La Renault 5 Alpine poteva sembrare una normale compatta, ma prometteva molto di più. Il messaggio rimane nella memoria: non fatela arrabbiare.



1977 - Mini Innocenti

C’era un’epoca in cui la benzina costava poco più di un caffè e le auto, almeno a sentirle raccontare dalla pubblicità, sembravano pronte a risolvere ogni problema quotidiano: dal traffico cittadino al cane da portare in vacanza. È il caso della Innocenti Mini, che a metà degli anni Settanta invadeva le pagine dei giornali con uno slogan semplice e rassicurante: “Quando si è Mini basta poco”.
La scena è chiara: un benzinaio in candida tuta bianca riempie il serbatoio, mentre al volante una donna sorridente sembra dirci che sì, con questa macchina non serve altro. Basta poco spazio, basta poca benzina, basta poco denaro. Una promessa perfetta per un Paese che aveva appena fatto i conti con la crisi petrolifera del ’73 e iniziava a guardare all’economia dei consumi come a un valore, non a un sacrificio.
Il testo dell’annuncio, illustrato con tratti morbidi e colori acquerello, è quasi una dichiarazione d’amore: la Mini non si formalizza, ospita cinque persone senza battere ciglio, tollera bagagli, valigie e perfino il cane. Consuma pochissimo – appena un litro ogni sedici chilometri, presentato come un atto di “avarizia spaventosa” – e per parcheggiarla, scriveva il copywriter, “basta un buco”.
La Innocenti, allora controllata da British Leyland, voleva così convincere gli italiani che la nuova gamma (Mini 90, Mini 120 e la sportiva De Tomaso) non era solo l’evoluzione della leggendaria utilitaria inglese, ma un’auto italiana nei consumi, nei bisogni e nello stile. Non a caso il claim finale prometteva assistenza “dal Monte Bianco al Mar Jonio”, una carezza patriottica che la vecchia Mini d’Oltremanica non avrebbe potuto concedere.
Riguardata oggi, questa pubblicità sembra quasi ingenua nella sua fiducia. Ma racconta bene lo spirito di quegli anni: l’auto non era soltanto un mezzo di trasporto, era un simbolo di libertà, leggerezza e modernità. E la Mini Innocenti, con il suo design squadrato firmato Bertone, cercava di portare tutto questo in formato ridotto.
“Quando si è Mini basta poco”: uno slogan che, col senno di poi, suona come un piccolo manifesto degli anni ’70, quando il futuro pareva stare in una city car compatta e colorata, pronta a fare spazio a tutto. Anche al cane.



Anni 60-70 Idrolitina


Diceva l’oste al vino: tu mi diventi vecchio, ti voglio maritare con l’acqua del mio secchio. Rispose il vino all’oste: fai le pubblicazioni, sposo l’Idrolitina del Cavalier Gazzoni. Una filastrocca in rima, semplice e indimenticabile, stampata sul lato della confezione gialla e rossa. È forse uno dei casi più emblematici in cui la poesia si è fatta pubblicità, trasformando un preparato chimico in un marchio popolare, un oggetto familiare della tavola italiana per oltre un secolo.

Idrolitina nasce a Bologna nel 1901 grazie all’intuizione del Cavalier Arturo Gazzoni, oste, imprenditore e visionario. La sua formula, basata su bicarbonato di sodio e acidi organici, trasformava l’acqua del rubinetto in una bibita effervescente, alternativa domestica alle acque minerali frizzanti. Un piccolo spettacolo casalingo: versare la polvere, vedere sprigionarsi la schiuma, tappare in fretta la bottiglia per non perdere l’effervescenza. Un rituale che segnava l’inizio della festa a tavola, capace di far dimenticare il sapore di cloro e restituire freschezza.

La forza del marchio non risiedeva soltanto nella formula, ma soprattutto nella comunicazione. Gazzoni comprese l’importanza di un packaging memorabile: il giallo brillante della scatola, i bordi rossi, gli stemmi ufficiali che vantavano il titolo di “fornitore della Real Casa” e persino del Vaticano, il simbolo della Salus, e soprattutto quella poesia che rimaneva impressa come un jingle. Un “poema pubblicitario” che non costava nulla e valeva più di mille cartelloni. L’Idrolitina entrò poi nel Carosello, con spot in cui Aurelio Fierro prestava la sua voce, con slogan come “È arrivato il signor Pietro”, con concorsi a premi in gettoni d’oro. Tutto contribuiva a renderla non solo un prodotto, ma un pezzo di cultura popolare.

La concorrenza non mancò. Negli anni Sessanta Ferrero provò a lanciare la “Cristallina”, un prodotto effervescente simile, con la medesima promessa di rendere gassata l’acqua del rubinetto. Ma la potenza della tradizione e della comunicazione dell’Idrolitina fu imbattibile: la Cristallina non riuscì mai a scalzare il primato della scatolina gialla, e rimase un tentativo isolato, presto dimenticato. Il marchio di Gazzoni restò sinonimo stesso di acqua frizzante fatta in casa, un caso raro di prodotto che si identifica con la categoria.

Oggi, dopo più di un secolo, Idrolitina è ancora in commercio, seppure in una nicchia nostalgica. Il marchio è passato negli anni Duemila a Prontofoods, la stessa realtà che produce Ristora, e mantiene una confezione fedele all’originale. Sul fianco della scatola resiste la filastrocca, a ribadire la forza di un linguaggio che ha attraversato epoche e generazioni. In un mondo di gasatori domestici e bottiglie di plastica, Idrolitina prova a rinnovarsi sottolineando temi di sostenibilità: meno imballaggi, meno sprechi, più efficienza.

Ma al di là della sua sopravvivenza commerciale, Idrolitina resta un’icona della pubblicità italiana. Un esempio di come la semplicità poetica, la forza del colore, l’autorevolezza istituzionale e l’uso sapiente dei media abbiano trasformato una miscela di bicarbonato e acidi in un mito nazionale. Ancora oggi basta citare la poesia dell’oste e del vino per evocare un sorriso, un ricordo, una bottiglia che frizza sul tavolo della domenica.









1974 - Il bambino Kinder: il sorriso che ha conquistato il mondo


Un sorriso stampato sulla confezione di una barretta di cioccolato, semplice e rassicurante, è diventato nel tempo uno dei volti più riconoscibili della storia della pubblicità. La storia di Kinder inizia nel 1968 ad Alba, quando Michele Ferrero, con la sua visione imprenditoriale, decide di creare un cioccolato pensato per i bambini, che fosse gustoso ma anche rassicurante per i genitori. Nasce così il Kinder Cioccolato, la barretta con il celebre slogan “più latte, meno cacao”, pensata per essere facilmente impugnata dalle mani dei più piccoli. Pochi anni dopo, nel 1974, arriva il Kinder Sorpresa, l’uovo che racchiude un gioco. All’inizio accolto con scetticismo, diventa un successo mondiale e un simbolo di gioia per intere generazioni, con il dettaglio studiato del guscio giallo interno che richiama un tuorlo d’uovo.

A rendere unico il prodotto delle barrette  è anche l’immagine del bambino che per decenni ha accompagnato le confezioni. Il primo volto, rimasto a lungo anonimo, fu quello di Günter Euringer, un bambino tedesco che dal 1973 al 2005 sorrise dalle barrette Kinder. La sua identità rimase nascosta fino a quando, ormai adulto, decise di raccontare la propria storia in un libro autobiografico, spiegando di non essersi mai sentito famoso nonostante il volto fosse conosciuto in tutto il mondo. Nel 2005 Ferrero scelse di rinnovare l’immagine e affidò quel ruolo a un bambino italiano, Matteo Farneti, che divenne il nuovo “bambino Kinder” fino al 2019. La sua presenza non fu priva di controversie, con diversi ragazzi che in seguito hanno millantato di essere stati il volto delle barrette. Ferrero ha chiarito ogni dubbio confermando che l’immagine era proprio la sua. Una scelta di marketing, quella del cambio di volto, legata al desiderio di mantenere sempre attuale e fresca l’immagine del marchio.

Dietro il nome stesso di Kinder, che in tedesco significa “bambini”, si cela la vocazione internazionale e familiare del brand. Non mancano le curiosità che circondano i prodotti: il celebre ovetto Kinder Sorpresa, per esempio, è stato a lungo vietato negli Stati Uniti per una legge che impediva l’inserimento di oggetti non commestibili negli alimenti; solo con il Kinder Joy, che separa cioccolato e sorpresa in due scomparti, il marchio ha varcato i confini americani. Altri prodotti, come l’Happy Hippo, hanno lasciato il segno pur non essendo più disponibili in Italia, alimentando la nostalgia di chi li ha amati.

La storia di Kinder, fatta di intuizioni geniali, cura nei dettagli e attenzione alle emozioni, ha trasformato un semplice cioccolatino in un fenomeno culturale mondiale. Ma soprattutto ha reso immortale l’immagine di un bambino sorridente, capace di accompagnare l’infanzia di milioni di persone e di diventare, senza volerlo, parte della memoria collettiva.












anni 60 - Birra Moretti, 165 anni di storia nel bicchiere: tradizione italiana che conquista il mondo

 

Birra Moretti è uno di quei marchi che raccontano l’Italia attraverso un bicchiere. La sua storia comincia nel 1859 a Udine, quando Luigi Moretti, già attivo nel commercio di vini e liquori, fondò la Fabbrica di Birra e Ghiaccio. Nel giro di pochi anni la produzione superò i 2.500 ettolitri annui e la birra si impose nel Nord Italia. A rendere il marchio inconfondibile fu l’immagine dell’uomo con i baffi che solleva un boccale, un volto autentico e non costruito, destinato a diventare una delle icone più longeve della pubblicità italiana.

Dalla metà dell’Ottocento a oggi, Birra Moretti ha saputo preservare il legame con la tradizione senza rinunciare all’innovazione. L’acquisizione da parte del gruppo Heineken nel 1996 ha dato respiro internazionale a un brand che rimane profondamente italiano. Negli ultimi due decenni la gamma si è ampliata con nuove varianti pensate per un pubblico sempre più diversificato: dalla Doppio Malto alla La Rossa, fino a interpretazioni più moderne come la Filtrata a Freddo, lanciata nel 2021, prodotta con un processo di filtrazione che esalta freschezza e brillantezza.

Parallelamente, la comunicazione ha continuato a giocare un ruolo chiave. Le campagne pubblicitarie hanno puntato sull’autenticità e sulla convivialità, valori che hanno fatto di Moretti un marchio familiare e rassicurante. Nel 2025 la campagna globale “Enjoy Life’s Simple Pleasures” ha rafforzato questo posizionamento, raccontando la bellezza dei momenti semplici, mentre in Italia lo slogan “Come piace a noi” celebra la spontaneità e la condivisione.

Oggi Birra Moretti non è solo un prodotto, ma un simbolo di italianità esportato in tutto il mondo. Dietro al gusto riconoscibile c’è l’impegno per la qualità delle materie prime e una crescente attenzione alla sostenibilità, con iniziative ambientali come la protezione di porzioni di foresta equatoriale in Costa Rica.

Forse non tutti sanno che l’uomo baffuto nacque da un incontro casuale in una trattoria friulana: quando gli fu chiesto di posare, accettò solo a patto che gli venisse offerto da bere e da mangiare. Quel gesto semplice diede vita a uno dei simboli più autentici della birra italiana, rimasto immutato fino a oggi.





1979 - Big Babol: storia di una gomma che ha fatto “boom”

 Negli anni Ottanta, quando l’Italia stava scoprendo le tv private, i cartoni animati giapponesi e i primi videogame da bar, comparve sugli scaffali delle edicole e dei supermercati un prodotto che sarebbe diventato un’icona pop: la Big Babol. Lanciata in Italia nel 1980 dalla Perfetti Van Melle, storica azienda dolciaria lombarda con sede a Lainate, la Big Babol nasceva con un’idea semplice ma geniale: creare una gomma pensata per i bambini e i ragazzi, molto più grande e morbida delle chewing gum americane, capace di fare palloni enormi. Il nome stesso – “Babol”, italianizzazione ironica di “bubble” – e il packaging coloratissimo strizzavano l’occhio al pubblico giovane, promettendo divertimento immediato.

Il successo fu esplosivo. Perfetti investì molto in pubblicità, puntando su spot televisivi dal ritmo serrato e su grafiche pop che richiamavano fumetti e cartoni animati. “Fai un pallone così!”, recitavano gli slogan, mentre sullo schermo ragazzini entusiasti gonfiavano bolle gigantesche come superpoteri. La Big Babol divenne presto un rito di passaggio infantile: chi riusciva a fare il pallone più grosso acquisiva automaticamente lo status di leader del gruppo.

Dopo il boom italiano, la gomma fu esportata in tutta Europa e perfino in Asia e Sud America, imponendosi come uno dei marchi più riconoscibili della Perfetti. Negli anni Novanta arrivarono le varianti al gusto fragola, cola, frutti tropicali e liquirizia, ognuna con un packaging sgargiante. In quel periodo la Big Babol entrò definitivamente nell’immaginario collettivo, al pari di altri simboli generazionali come l’Ovetto Kinder, le merendine del Mulino Bianco o le figurine Panini.

Negli anni del suo massimo splendore era molto più di una semplice gomma: era un simbolo di infanzia e leggerezza, un accessorio quasi identitario. Entrò nelle collezioni di gadget, comparve nei fumetti e nei racconti dei ragazzini cresciuti a palloncini rosa, e il suo nome divenne sinonimo stesso di chewing gum gigante, tanto da entrare nel linguaggio comune.

Con l’inizio del nuovo millennio, però, qualcosa cambiò. Le nuove politiche alimentari, l’attenzione crescente verso la salute e la demonizzazione dello zucchero colpirono in pieno la Big Babol. La concorrenza di prodotti sugar-free e di marchi internazionali come Hubba Bubba ridusse il suo spazio sugli scaffali, mentre le campagne pubblicitarie persero mordente. Pur rimanendo sul mercato, la Big Babol cessò di essere la star incontrastata delle merende.

Oggi esiste ancora, sempre prodotta da Perfetti Van Melle, ma ha perso la forza mediatica di un tempo e vive soprattutto come marchio nostalgico. Si trova nei supermercati e nei bar, ma soprattutto nei ricordi di chi è cresciuto tra gli anni Ottanta e Novanta. Rimane un feticcio generazionale, spesso citato sui social come simbolo di quell’epoca.

La sua storia è arricchita da una serie di aneddoti curiosi. Negli anni Ottanta, ad esempio, pacchi interi di Big Babol venivano usati come premio in trasmissioni televisive locali per ragazzi. In Francia, dove era commercializzata come “Big Babol Bubble Gum”, divenne un vero fenomeno da cortile, con scambi e sfide a chi faceva la bolla più grande. Nel 2012 fu lanciata una versione senza zucchero, ma i nostalgici protestarono: “senza zucchero non fa gli stessi palloni”, scrivevano nei forum. C’è perfino un Guinness World Record legato al marchio: un ragazzo italiano negli anni Novanta riuscì a gonfiare con una Big Babol una bolla di oltre sessanta centimetri di diametro. Non a caso alcuni artisti pop contemporanei hanno usato le confezioni vintage come elemento estetico nelle loro installazioni, a testimonianza del peso culturale di una gomma che ha fatto storia.


Negli anni Ottanta, la Big Babol si trasformò in un fenomeno pubblicitario grazie alla partecipazione di due figure del mondo dello spettacolo italiano. Dal 1979 al 1982, la showgirl Daniela Goggi fu l’amatissima testimonial del prodotto, interprete del celebre jingle “Mastichiamo, mastichiamo, mastichiamo Big-Big Babol…” che divenne subito un tormentone estivo e televisivo Wikipediarebusmultimedia.net. In quegli anni, la sua presenza contribuì alla diffusione virale delle gomme: spot trasmessi in tv, presenze su riviste come Topolino e un’identificazione del marchio con il suo volto e la sua voce





1966 - Gli Smarties Italiani: I Flipper

 


Negli anni ’60, la Perugina, storica azienda dolciaria fondata a Perugia nel 1907, rivoluzionò il mercato italiano con i Flipper, confetti di cioccolato ricoperti da una glassa colorata. Non erano semplici dolci: confezionati in astucci cilindrici di metallo, spesso accompagnati da gadget come mini giochi o campetti da calcio, trasformavano ogni acquisto in un momento di sorpresa e divertimento.

Il packaging brillante, i colori vivaci e le campagne pubblicitarie puntate sul gusto, sul gioco e sulla fantasia fecero dei Flipper un prodotto amatissimo dai bambini e un simbolo della creatività italiana. In breve tempo diventarono un’icona nazionale, capace di unire qualità del cioccolato e intrattenimento.

La loro parabola però cambiò nel 1988, quando la Perugina fu acquisita da Nestlé. L’azienda svizzera decise di razionalizzare la propria offerta: due prodotti simili nello stesso mercato rischiavano di entrare in conflitto. Nei primi anni ’90 i Flipper furono quindi ritirati dalla produzione. Da allora sono rimasti un ricordo nostalgico, celebrati da collezionisti e appassionati come una delle espressioni più originali del made in Italy dolciario.

Solo a questo punto entrano in scena gli Smarties, creati in Inghilterra da Rowntree & Co. nel 1937 e divenuti parte del portafoglio Nestlé. Diffusi a livello internazionale e sostenuti da una comunicazione globale, negli anni ’90 presero definitivamente il posto dei Flipper sul mercato italiano, imponendosi come le celebri “lenticchie di cioccolato colorate” che ancora oggi dominano gli scaffali.

La storia dei Flipper e degli Smarties racconta così due mondi diversi: da un lato un prodotto locale, creativo e legato all’esperienza ludica; dall’altro un marchio globale, supportato da una strategia internazionale. Due approcci che, intrecciandosi, hanno segnato l’immaginario di più generazioni di consumatori.





1980 - 2025 Cin Cin - L’aperitivo come moda: viaggio tra i cocktail che hanno fatto epoca



Quei pochi che mi seguono sanno che mi occupo di pubblicità delle decadi ’60-’90, ma oggi è necessario ampliare lo sguardo per parlare dell’immagine sociale del bere e di come la pubblicità abbia influenzato tutto questo.

Negli ultimi quarant’anni il bere alcolici si è trasformato da gesto privato a spettacolo pubblico, da scelta di gusto a linguaggio sociale. Il bicchiere in mano è diventato accessorio, segno di appartenenza, dichiarazione di stile. Le mode si sono susseguite con rapidità quasi stagionale, fino a rendere il cocktail non tanto una bevanda quanto un simbolo da mostrare.

Tutto comincia negli anni Ottanta, quando la celebre campagna della Ramazzotti lanciò l’immagine della “Milano da bere”. Non era un drink specifico, ma un intero stile di vita costruito attorno al bicchiere. Whisky, Martini dry e Campari divennero icone della nuova classe emergente: cosmopolita, rampante, desiderosa di ostentare. Negli anni Novanta il mondo delle discoteche impose cocktail zuccherini e spettacolari come Long Island Iced Tea, Tequila Sunrise e Sex on the Beach. La notte si alimentava anche con il mix di vodka e Red Bull, carburante chimico che faceva ballare fino all’alba, mentre non mancavano riti scenografici come il B52 da incendiare o l’Angelo Azzurro, eredità degli anni Settanta. Parallelamente la birra Corona con lime conquistava i giovani come simbolo di leggerezza internazionale, grazie a campagne pubblicitarie che esaltavano spiagge e libertà.

Con l’inizio dei Duemila si afferma una nuova icona globale: il Mojito. Dalla Cuba di Hemingway alle spiagge di Ibiza, diventa il cocktail dell’estate per eccellenza, rilanciato anche da Madonna. Accanto a lui, Caipirinha e Caipiroska seguono la scia latina, mentre il Prosecco si trasforma in fenomeno planetario, bevuta popolare e chic, aprendo la strada a un nuovo modo di intendere l’aperitivo.

Il decennio successivo è dominato dall’Aperol Spritz, imposto su scala mondiale da campagne di marketing che hanno fatto scuola. L’arancione brillante nei calici diventa sinonimo di socialità e tramonti condivisi. A metà degli anni Dieci arriva il Moscow Mule, rilanciato dai locali hipster e reso virale dall’iconico bicchiere di rame, subito diventato accessorio da fotografare e condividere. Nello stesso periodo il Gin Tonic, rivisitato in chiave premium, diventa bevuta “da intenditori”, aiutato anche dal cinema: James Bond, nell’interpretazione di Daniel Craig, lo sceglie spesso al posto del Martini.

Negli anni Venti la mania del gin si consolida con micro-distillerie e gin bar specializzati. Lo Spritz si reinventa in varianti come l’Hugo, mentre dagli Stati Uniti arrivano gli hard seltzer, bevande leggere per un pubblico alla ricerca di alcolici “healthy”. Crescono anche i cocktail analcolici curati nell’estetica, dimostrazione che oggi conta più l’immagine del bicchiere che il contenuto stesso.

Le mode si consolidano grazie alla pubblicità e ai volti noti. “No Martini, No Party”, con Charlize Theron, ha reso il Martini sinonimo di esclusività. Campari ha costruito il proprio immaginario internazionale con Salma Hayek ed Eva Green. George Clooney, con Nespresso e il tequila Casamigos, ha dimostrato come una star possa trasformare una bevanda in lifestyle. Corona ha imposto il rituale del lime, mentre Aperol ha diffuso il suo arancione in ogni piazza. La comunicazione ha reso ogni cocktail un oggetto estetico, una piccola icona da ostentare e condividere.


Questa storia dimostra come il bere non sia mai stato solo questione di gusto. Ogni epoca ha avuto il suo bicchiere simbolo, codice sociale e biglietto da visita. In fondo, ciò che conta non è quasi mai il contenuto del calice, ma il messaggio che manda. Bere è sempre stato, prima di tutto, immagine. Basta una passeggiata sui social per rendersene conto.