Negli anni ’70 la Suzuki viene ricordata per due cose. La prima: il lancio della GT 750 che rappresentava l’ingresso aziendale nel “mondo delle grandi moto”. Dotata di un tre cilindri in linea da 738 cc, portò la novità del raffreddamento a liquido e le pareti completamente “lisce” dei cilindri .
La seconda fu la sua pubblicità. Quando non ci si poneva nella comunicazione il problema del sessismo (adesso sì?) e quindi della donna oggetto, anzi rifacendosi a quella dissacrazione comunicativa anni ’70 dove ogni prodotto maschile era destinato all’uomo “che non deve chiedere mai”, la Suzuki lanciò questa pubblicità “comparativa” tra una donna e la sua moto… Chi dei due era più prestante e affidabile?
La donna (a seconda Milena, Zelda o Cristina) era così descritta: “Ritorno dalla caccia. Corpo che si offre nel gioco dell’abbandono. E certezza che lei è sempre lì. Sempre. Il perdono dopo l’avventura”.
“Donna su cui appuntare emozioni e amore”.
La moto invece: “Freno anteriore a disco con comando idraulico. Freno posteriore meccanico a doppia ganascia. Sospensioni e telaio a perfetta tenuta di strada…”.
Quindi chi era più affidabile e a seconda di quale esigenza? La moto come donna o la donna come moto e quindi oggetto?
“Donne e moto sono tutte uguali ma qualcuno è più uguale.”
Se come dice Marlon Brando a Frank Sinatra nel film Bulli e pupe: “una pupa è una pupa: ognuna è tutte” si dovrebbe dedurre che le donne sono tutte uguali, la Suzuki no.
Ma la pubblicità gioca proprio su questo ironico e amletico dubbio… in realtà, ci mancherebbe, nessuna azienda seria e intelligente compararebbe la donna con un oggetto e spero che questo si sia capito.
Ma questo claim ha fatto epoca… e qualcuno dei più grandicelli ricorderà sicuramente le bellissime foto piene di malizioso e velato erotismo scattate dal maestro Franco Turcati di Torino.
Lo stesso Turcati, gentilissimo, mi ha precisato:
“La creazione è stata fatta dall’agenzia OFF, Art Angelo Agosti, Copy Wilma Cino. Era un’ottima piccola agenzia. Questa campagna è stata la prima condannata dal Giurì dell’autodisciplina perché – secondo loro – offendeva la donna. Wilma Cino aveva preso spunto dalla canzone di Bruno Lauzi: si parlava di donne e motori…”
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