1980 - 2025 Cin Cin - L’aperitivo come moda: viaggio tra i cocktail che hanno fatto epoca



Quei pochi che mi seguono sanno che mi occupo di pubblicità delle decadi ’60-’90, ma oggi è necessario ampliare lo sguardo per parlare dell’immagine sociale del bere e di come la pubblicità abbia influenzato tutto questo.

Negli ultimi quarant’anni il bere alcolici si è trasformato da gesto privato a spettacolo pubblico, da scelta di gusto a linguaggio sociale. Il bicchiere in mano è diventato accessorio, segno di appartenenza, dichiarazione di stile. Le mode si sono susseguite con rapidità quasi stagionale, fino a rendere il cocktail non tanto una bevanda quanto un simbolo da mostrare.

Tutto comincia negli anni Ottanta, quando la celebre campagna della Ramazzotti lanciò l’immagine della “Milano da bere”. Non era un drink specifico, ma un intero stile di vita costruito attorno al bicchiere. Whisky, Martini dry e Campari divennero icone della nuova classe emergente: cosmopolita, rampante, desiderosa di ostentare. Negli anni Novanta il mondo delle discoteche impose cocktail zuccherini e spettacolari come Long Island Iced Tea, Tequila Sunrise e Sex on the Beach. La notte si alimentava anche con il mix di vodka e Red Bull, carburante chimico che faceva ballare fino all’alba, mentre non mancavano riti scenografici come il B52 da incendiare o l’Angelo Azzurro, eredità degli anni Settanta. Parallelamente la birra Corona con lime conquistava i giovani come simbolo di leggerezza internazionale, grazie a campagne pubblicitarie che esaltavano spiagge e libertà.

Con l’inizio dei Duemila si afferma una nuova icona globale: il Mojito. Dalla Cuba di Hemingway alle spiagge di Ibiza, diventa il cocktail dell’estate per eccellenza, rilanciato anche da Madonna. Accanto a lui, Caipirinha e Caipiroska seguono la scia latina, mentre il Prosecco si trasforma in fenomeno planetario, bevuta popolare e chic, aprendo la strada a un nuovo modo di intendere l’aperitivo.

Il decennio successivo è dominato dall’Aperol Spritz, imposto su scala mondiale da campagne di marketing che hanno fatto scuola. L’arancione brillante nei calici diventa sinonimo di socialità e tramonti condivisi. A metà degli anni Dieci arriva il Moscow Mule, rilanciato dai locali hipster e reso virale dall’iconico bicchiere di rame, subito diventato accessorio da fotografare e condividere. Nello stesso periodo il Gin Tonic, rivisitato in chiave premium, diventa bevuta “da intenditori”, aiutato anche dal cinema: James Bond, nell’interpretazione di Daniel Craig, lo sceglie spesso al posto del Martini.

Negli anni Venti la mania del gin si consolida con micro-distillerie e gin bar specializzati. Lo Spritz si reinventa in varianti come l’Hugo, mentre dagli Stati Uniti arrivano gli hard seltzer, bevande leggere per un pubblico alla ricerca di alcolici “healthy”. Crescono anche i cocktail analcolici curati nell’estetica, dimostrazione che oggi conta più l’immagine del bicchiere che il contenuto stesso.

Le mode si consolidano grazie alla pubblicità e ai volti noti. “No Martini, No Party”, con Charlize Theron, ha reso il Martini sinonimo di esclusività. Campari ha costruito il proprio immaginario internazionale con Salma Hayek ed Eva Green. George Clooney, con Nespresso e il tequila Casamigos, ha dimostrato come una star possa trasformare una bevanda in lifestyle. Corona ha imposto il rituale del lime, mentre Aperol ha diffuso il suo arancione in ogni piazza. La comunicazione ha reso ogni cocktail un oggetto estetico, una piccola icona da ostentare e condividere.


Questa storia dimostra come il bere non sia mai stato solo questione di gusto. Ogni epoca ha avuto il suo bicchiere simbolo, codice sociale e biglietto da visita. In fondo, ciò che conta non è quasi mai il contenuto del calice, ma il messaggio che manda. Bere è sempre stato, prima di tutto, immagine. Basta una passeggiata sui social per rendersene conto.









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