Quando la pubblicità italiana imparò a giocare con l’ironia, l’eros e la libertà
C’è una cabina telefonica rossa su una spiaggia assolata, una ragazza seminuda che parla al telefono, e una moto blu lucente che attira gli sguardi. Poi, la battuta perfetta: “Sì pronto! C’è un tizio qui fuori che guarda da un’ora; sembra non abbia mai visto una Gilera.” Bastano queste poche parole per evocare l’essenza di un’intera stagione creativa: quella della pubblicità italiana degli anni Settanta, quando l’ironia, la sensualità e la dissacrazione entrarono di diritto nel linguaggio dell’advertising.
L’annuncio della Gilera – databile intorno al 1975 – è uno di quei manifesti che raccontano più di un prodotto: raccontano un Paese. La storica casa motociclistica di Arcore, fondata nel 1909 da Giuseppe Gilera e gloriosa protagonista delle corse mondiali negli anni Cinquanta, in quel decennio cercava di reinventarsi. L’Italia stava cambiando pelle, la gioventù cercava libertà e leggerezza, e la moto non era più solo un mezzo, ma un simbolo di indipendenza. Gilera, come altri marchi del tempo, comprese che non bastava parlare di motori: bisognava parlare di emozioni, di stile, di desiderio.
E così la pubblicità si fece audace, ironica, seducente. La frase dell’annuncio è un piccolo capolavoro di doppio senso: tutti sanno che il “tizio” non sta guardando la moto, ma la ragazza. Tuttavia il messaggio ribalta la prospettiva: è la moto, non la donna, a catalizzare l’attenzione. In quel gioco linguistico si riflette l’intera filosofia della comunicazione di quegli anni, capace di alludere e far sorridere, di provocare senza scandalizzare. L’eros diventa ironia, il desiderio si trasforma in leggerezza, la pubblicità smette di prendersi sul serio.
Non è un caso che la scena sia ambientata su una spiaggia, simbolo di libertà e vitalità, e che la cabina telefonica rossa – un’icona importata idealmente dalla Swinging London – introduca una nota pop e internazionale. L’immagine è studiata con cura: colori saturi, composizione pulita, luce forte, un equilibrio tra sensualità e distacco che la rende più ironica che provocante. È la rappresentazione perfetta di un’Italia che aveva voglia di respirare, di sorridere, di prendersi gioco dei propri moralismi.
Negli anni Settanta la pubblicità italiana visse un periodo di straordinaria creatività. Le agenzie sperimentavano linguaggi nuovi, spesso influenzati dal cinema, dalla fotografia e dal fumetto. Le campagne di Campari, Lines, Amaro Ramazzotti o Autobianchi condividevano la stessa voglia di rompere gli schemi, di raccontare la quotidianità con un tocco di malizia e autoironia. L’idea che una marca di motociclette, un settore tradizionalmente “maschile”, potesse usare il doppio senso come chiave narrativa, dimostrava quanto il confine tra marketing e cultura pop si stesse ormai assottigliando.
Quell’immagine Gilera è più di una réclame: è un piccolo racconto, un frammento di costume. L’uomo che guarda è lo spettatore stesso, catturato dal gioco ironico e forse un po’ smascherato nella sua curiosità. La ragazza, disinvolta e sorridente, ribalta il ruolo femminile tradizionale della pubblicità: non è oggetto passivo, ma protagonista che ironizza sulla situazione, come se avesse capito tutto prima degli altri. E la moto, sullo sfondo, diventa simbolo di modernità, di energia, di libertà giovane.
In quell’epoca l’advertising non aveva paura di osare, e spesso proprio l’irriverenza era la sua forza. Oggi una pubblicità simile susciterebbe dibattiti e polemiche, ma allora rappresentava una forma di liberazione collettiva. Era il segno di un’Italia che imparava a ridere di sé stessa, a flirtare con i propri tabù, a usare la comunicazione come specchio del costume.
Riguardando oggi quella pagina, la battuta “Sembra non abbia mai visto una Gilera” conserva la sua ironia fresca, diretta, senza volgarità. È l’istantanea di un tempo in cui anche una semplice inserzione poteva essere una piccola opera di cultura pop. Dietro una battuta da spiaggia e una cabina rossa c’è un mondo intero: la fiducia nel progresso, l’allegria un po’ sfrontata di una generazione, e soprattutto la consapevolezza che la pubblicità, per funzionare, deve prima di tutto far sorridere.
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