1975 - Renault 5 Alpine
1977 - Mini Innocenti
La scena è chiara: un benzinaio in candida tuta bianca riempie il serbatoio, mentre al volante una donna sorridente sembra dirci che sì, con questa macchina non serve altro. Basta poco spazio, basta poca benzina, basta poco denaro. Una promessa perfetta per un Paese che aveva appena fatto i conti con la crisi petrolifera del ’73 e iniziava a guardare all’economia dei consumi come a un valore, non a un sacrificio.
Il testo dell’annuncio, illustrato con tratti morbidi e colori acquerello, è quasi una dichiarazione d’amore: la Mini non si formalizza, ospita cinque persone senza battere ciglio, tollera bagagli, valigie e perfino il cane. Consuma pochissimo – appena un litro ogni sedici chilometri, presentato come un atto di “avarizia spaventosa” – e per parcheggiarla, scriveva il copywriter, “basta un buco”.
La Innocenti, allora controllata da British Leyland, voleva così convincere gli italiani che la nuova gamma (Mini 90, Mini 120 e la sportiva De Tomaso) non era solo l’evoluzione della leggendaria utilitaria inglese, ma un’auto italiana nei consumi, nei bisogni e nello stile. Non a caso il claim finale prometteva assistenza “dal Monte Bianco al Mar Jonio”, una carezza patriottica che la vecchia Mini d’Oltremanica non avrebbe potuto concedere.
Riguardata oggi, questa pubblicità sembra quasi ingenua nella sua fiducia. Ma racconta bene lo spirito di quegli anni: l’auto non era soltanto un mezzo di trasporto, era un simbolo di libertà, leggerezza e modernità. E la Mini Innocenti, con il suo design squadrato firmato Bertone, cercava di portare tutto questo in formato ridotto.
“Quando si è Mini basta poco”: uno slogan che, col senno di poi, suona come un piccolo manifesto degli anni ’70, quando il futuro pareva stare in una city car compatta e colorata, pronta a fare spazio a tutto. Anche al cane.
Anni 60-70 Idrolitina
Diceva l’oste al vino: tu mi diventi vecchio, ti voglio maritare con l’acqua del mio secchio. Rispose il vino all’oste: fai le pubblicazioni, sposo l’Idrolitina del Cavalier Gazzoni. Una filastrocca in rima, semplice e indimenticabile, stampata sul lato della confezione gialla e rossa. È forse uno dei casi più emblematici in cui la poesia si è fatta pubblicità, trasformando un preparato chimico in un marchio popolare, un oggetto familiare della tavola italiana per oltre un secolo.
Idrolitina nasce a Bologna nel 1901 grazie all’intuizione del Cavalier Arturo Gazzoni, oste, imprenditore e visionario. La sua formula, basata su bicarbonato di sodio e acidi organici, trasformava l’acqua del rubinetto in una bibita effervescente, alternativa domestica alle acque minerali frizzanti. Un piccolo spettacolo casalingo: versare la polvere, vedere sprigionarsi la schiuma, tappare in fretta la bottiglia per non perdere l’effervescenza. Un rituale che segnava l’inizio della festa a tavola, capace di far dimenticare il sapore di cloro e restituire freschezza.
La forza del marchio non risiedeva soltanto nella formula, ma soprattutto nella comunicazione. Gazzoni comprese l’importanza di un packaging memorabile: il giallo brillante della scatola, i bordi rossi, gli stemmi ufficiali che vantavano il titolo di “fornitore della Real Casa” e persino del Vaticano, il simbolo della Salus, e soprattutto quella poesia che rimaneva impressa come un jingle. Un “poema pubblicitario” che non costava nulla e valeva più di mille cartelloni. L’Idrolitina entrò poi nel Carosello, con spot in cui Aurelio Fierro prestava la sua voce, con slogan come “È arrivato il signor Pietro”, con concorsi a premi in gettoni d’oro. Tutto contribuiva a renderla non solo un prodotto, ma un pezzo di cultura popolare.
La concorrenza non mancò. Negli anni Sessanta Ferrero provò a lanciare la “Cristallina”, un prodotto effervescente simile, con la medesima promessa di rendere gassata l’acqua del rubinetto. Ma la potenza della tradizione e della comunicazione dell’Idrolitina fu imbattibile: la Cristallina non riuscì mai a scalzare il primato della scatolina gialla, e rimase un tentativo isolato, presto dimenticato. Il marchio di Gazzoni restò sinonimo stesso di acqua frizzante fatta in casa, un caso raro di prodotto che si identifica con la categoria.
Oggi, dopo più di un secolo, Idrolitina è ancora in commercio, seppure in una nicchia nostalgica. Il marchio è passato negli anni Duemila a Prontofoods, la stessa realtà che produce Ristora, e mantiene una confezione fedele all’originale. Sul fianco della scatola resiste la filastrocca, a ribadire la forza di un linguaggio che ha attraversato epoche e generazioni. In un mondo di gasatori domestici e bottiglie di plastica, Idrolitina prova a rinnovarsi sottolineando temi di sostenibilità: meno imballaggi, meno sprechi, più efficienza.
Ma al di là della sua sopravvivenza commerciale, Idrolitina resta un’icona della pubblicità italiana. Un esempio di come la semplicità poetica, la forza del colore, l’autorevolezza istituzionale e l’uso sapiente dei media abbiano trasformato una miscela di bicarbonato e acidi in un mito nazionale. Ancora oggi basta citare la poesia dell’oste e del vino per evocare un sorriso, un ricordo, una bottiglia che frizza sul tavolo della domenica.
1974 - Il bambino Kinder: il sorriso che ha conquistato il mondo
Un sorriso stampato sulla confezione di una barretta di cioccolato, semplice e rassicurante, è diventato nel tempo uno dei volti più riconoscibili della storia della pubblicità. La storia di Kinder inizia nel 1968 ad Alba, quando Michele Ferrero, con la sua visione imprenditoriale, decide di creare un cioccolato pensato per i bambini, che fosse gustoso ma anche rassicurante per i genitori. Nasce così il Kinder Cioccolato, la barretta con il celebre slogan “più latte, meno cacao”, pensata per essere facilmente impugnata dalle mani dei più piccoli. Pochi anni dopo, nel 1974, arriva il Kinder Sorpresa, l’uovo che racchiude un gioco. All’inizio accolto con scetticismo, diventa un successo mondiale e un simbolo di gioia per intere generazioni, con il dettaglio studiato del guscio giallo interno che richiama un tuorlo d’uovo.
A rendere unico il prodotto delle barrette è anche l’immagine del bambino che per decenni ha accompagnato le confezioni. Il primo volto, rimasto a lungo anonimo, fu quello di Günter Euringer, un bambino tedesco che dal 1973 al 2005 sorrise dalle barrette Kinder. La sua identità rimase nascosta fino a quando, ormai adulto, decise di raccontare la propria storia in un libro autobiografico, spiegando di non essersi mai sentito famoso nonostante il volto fosse conosciuto in tutto il mondo. Nel 2005 Ferrero scelse di rinnovare l’immagine e affidò quel ruolo a un bambino italiano, Matteo Farneti, che divenne il nuovo “bambino Kinder” fino al 2019. La sua presenza non fu priva di controversie, con diversi ragazzi che in seguito hanno millantato di essere stati il volto delle barrette. Ferrero ha chiarito ogni dubbio confermando che l’immagine era proprio la sua. Una scelta di marketing, quella del cambio di volto, legata al desiderio di mantenere sempre attuale e fresca l’immagine del marchio.
Dietro il nome stesso di Kinder, che in tedesco significa “bambini”, si cela la vocazione internazionale e familiare del brand. Non mancano le curiosità che circondano i prodotti: il celebre ovetto Kinder Sorpresa, per esempio, è stato a lungo vietato negli Stati Uniti per una legge che impediva l’inserimento di oggetti non commestibili negli alimenti; solo con il Kinder Joy, che separa cioccolato e sorpresa in due scomparti, il marchio ha varcato i confini americani. Altri prodotti, come l’Happy Hippo, hanno lasciato il segno pur non essendo più disponibili in Italia, alimentando la nostalgia di chi li ha amati.
La storia di Kinder, fatta di intuizioni geniali, cura nei dettagli e attenzione alle emozioni, ha trasformato un semplice cioccolatino in un fenomeno culturale mondiale. Ma soprattutto ha reso immortale l’immagine di un bambino sorridente, capace di accompagnare l’infanzia di milioni di persone e di diventare, senza volerlo, parte della memoria collettiva.
Birra Moretti, 165 anni di storia nel bicchiere: tradizione italiana che conquista il mondo
Birra Moretti è uno di quei marchi che raccontano l’Italia attraverso un bicchiere. La sua storia comincia nel 1859 a Udine, quando Luigi Moretti, già attivo nel commercio di vini e liquori, fondò la Fabbrica di Birra e Ghiaccio. Nel giro di pochi anni la produzione superò i 2.500 ettolitri annui e la birra si impose nel Nord Italia. A rendere il marchio inconfondibile fu l’immagine dell’uomo con i baffi che solleva un boccale, un volto autentico e non costruito, destinato a diventare una delle icone più longeve della pubblicità italiana.
Dalla metà dell’Ottocento a oggi, Birra Moretti ha saputo preservare il legame con la tradizione senza rinunciare all’innovazione. L’acquisizione da parte del gruppo Heineken nel 1996 ha dato respiro internazionale a un brand che rimane profondamente italiano. Negli ultimi due decenni la gamma si è ampliata con nuove varianti pensate per un pubblico sempre più diversificato: dalla Doppio Malto alla La Rossa, fino a interpretazioni più moderne come la Filtrata a Freddo, lanciata nel 2021, prodotta con un processo di filtrazione che esalta freschezza e brillantezza.
Parallelamente, la comunicazione ha continuato a giocare un ruolo chiave. Le campagne pubblicitarie hanno puntato sull’autenticità e sulla convivialità, valori che hanno fatto di Moretti un marchio familiare e rassicurante. Nel 2025 la campagna globale “Enjoy Life’s Simple Pleasures” ha rafforzato questo posizionamento, raccontando la bellezza dei momenti semplici, mentre in Italia lo slogan “Come piace a noi” celebra la spontaneità e la condivisione.
Oggi Birra Moretti non è solo un prodotto, ma un simbolo di italianità esportato in tutto il mondo. Dietro al gusto riconoscibile c’è l’impegno per la qualità delle materie prime e una crescente attenzione alla sostenibilità, con iniziative ambientali come la protezione di porzioni di foresta equatoriale in Costa Rica.
Forse non tutti sanno che l’uomo baffuto nacque da un incontro casuale in una trattoria friulana: quando gli fu chiesto di posare, accettò solo a patto che gli venisse offerto da bere e da mangiare. Quel gesto semplice diede vita a uno dei simboli più autentici della birra italiana, rimasto immutato fino a oggi.
1979 - Big Babol: storia di una gomma che ha fatto “boom”
Negli anni Ottanta, quando l’Italia stava scoprendo le tv private, i cartoni animati giapponesi e i primi videogame da bar, comparve sugli scaffali delle edicole e dei supermercati un prodotto che sarebbe diventato un’icona pop: la Big Babol. Lanciata in Italia nel 1980 dalla Perfetti Van Melle, storica azienda dolciaria lombarda con sede a Lainate, la Big Babol nasceva con un’idea semplice ma geniale: creare una gomma pensata per i bambini e i ragazzi, molto più grande e morbida delle chewing gum americane, capace di fare palloni enormi. Il nome stesso – “Babol”, italianizzazione ironica di “bubble” – e il packaging coloratissimo strizzavano l’occhio al pubblico giovane, promettendo divertimento immediato.
Il successo fu esplosivo. Perfetti investì molto in pubblicità, puntando su spot televisivi dal ritmo serrato e su grafiche pop che richiamavano fumetti e cartoni animati. “Fai un pallone così!”, recitavano gli slogan, mentre sullo schermo ragazzini entusiasti gonfiavano bolle gigantesche come superpoteri. La Big Babol divenne presto un rito di passaggio infantile: chi riusciva a fare il pallone più grosso acquisiva automaticamente lo status di leader del gruppo.
Dopo il boom italiano, la gomma fu esportata in tutta Europa e perfino in Asia e Sud America, imponendosi come uno dei marchi più riconoscibili della Perfetti. Negli anni Novanta arrivarono le varianti al gusto fragola, cola, frutti tropicali e liquirizia, ognuna con un packaging sgargiante. In quel periodo la Big Babol entrò definitivamente nell’immaginario collettivo, al pari di altri simboli generazionali come l’Ovetto Kinder, le merendine del Mulino Bianco o le figurine Panini.
Negli anni del suo massimo splendore era molto più di una semplice gomma: era un simbolo di infanzia e leggerezza, un accessorio quasi identitario. Entrò nelle collezioni di gadget, comparve nei fumetti e nei racconti dei ragazzini cresciuti a palloncini rosa, e il suo nome divenne sinonimo stesso di chewing gum gigante, tanto da entrare nel linguaggio comune.
Con l’inizio del nuovo millennio, però, qualcosa cambiò. Le nuove politiche alimentari, l’attenzione crescente verso la salute e la demonizzazione dello zucchero colpirono in pieno la Big Babol. La concorrenza di prodotti sugar-free e di marchi internazionali come Hubba Bubba ridusse il suo spazio sugli scaffali, mentre le campagne pubblicitarie persero mordente. Pur rimanendo sul mercato, la Big Babol cessò di essere la star incontrastata delle merende.
Oggi esiste ancora, sempre prodotta da Perfetti Van Melle, ma ha perso la forza mediatica di un tempo e vive soprattutto come marchio nostalgico. Si trova nei supermercati e nei bar, ma soprattutto nei ricordi di chi è cresciuto tra gli anni Ottanta e Novanta. Rimane un feticcio generazionale, spesso citato sui social come simbolo di quell’epoca.
La sua storia è arricchita da una serie di aneddoti curiosi. Negli anni Ottanta, ad esempio, pacchi interi di Big Babol venivano usati come premio in trasmissioni televisive locali per ragazzi. In Francia, dove era commercializzata come “Big Babol Bubble Gum”, divenne un vero fenomeno da cortile, con scambi e sfide a chi faceva la bolla più grande. Nel 2012 fu lanciata una versione senza zucchero, ma i nostalgici protestarono: “senza zucchero non fa gli stessi palloni”, scrivevano nei forum. C’è perfino un Guinness World Record legato al marchio: un ragazzo italiano negli anni Novanta riuscì a gonfiare con una Big Babol una bolla di oltre sessanta centimetri di diametro. Non a caso alcuni artisti pop contemporanei hanno usato le confezioni vintage come elemento estetico nelle loro installazioni, a testimonianza del peso culturale di una gomma che ha fatto storia.
Negli anni Ottanta, la Big Babol si trasformò in un fenomeno pubblicitario grazie alla partecipazione di due figure del mondo dello spettacolo italiano. Dal 1979 al 1982, la showgirl Daniela Goggi fu l’amatissima testimonial del prodotto, interprete del celebre jingle “Mastichiamo, mastichiamo, mastichiamo Big-Big Babol…” che divenne subito un tormentone estivo e televisivo Wikipediarebusmultimedia.net. In quegli anni, la sua presenza contribuì alla diffusione virale delle gomme: spot trasmessi in tv, presenze su riviste come Topolino e un’identificazione del marchio con il suo volto e la sua voce
1966 - Gli Smarties Italiani: I Flipper
Negli anni ’60, la Perugina, storica azienda dolciaria fondata a Perugia nel 1907, rivoluzionò il mercato italiano con i Flipper, confetti di cioccolato ricoperti da una glassa colorata. Non erano semplici dolci: confezionati in astucci cilindrici di metallo, spesso accompagnati da gadget come mini giochi o campetti da calcio, trasformavano ogni acquisto in un momento di sorpresa e divertimento.
Il packaging brillante, i colori vivaci e le campagne pubblicitarie puntate sul gusto, sul gioco e sulla fantasia fecero dei Flipper un prodotto amatissimo dai bambini e un simbolo della creatività italiana. In breve tempo diventarono un’icona nazionale, capace di unire qualità del cioccolato e intrattenimento.
La loro parabola però cambiò nel 1988, quando la Perugina fu acquisita da Nestlé. L’azienda svizzera decise di razionalizzare la propria offerta: due prodotti simili nello stesso mercato rischiavano di entrare in conflitto. Nei primi anni ’90 i Flipper furono quindi ritirati dalla produzione. Da allora sono rimasti un ricordo nostalgico, celebrati da collezionisti e appassionati come una delle espressioni più originali del made in Italy dolciario.
Solo a questo punto entrano in scena gli Smarties, creati in Inghilterra da Rowntree & Co. nel 1937 e divenuti parte del portafoglio Nestlé. Diffusi a livello internazionale e sostenuti da una comunicazione globale, negli anni ’90 presero definitivamente il posto dei Flipper sul mercato italiano, imponendosi come le celebri “lenticchie di cioccolato colorate” che ancora oggi dominano gli scaffali.
La storia dei Flipper e degli Smarties racconta così due mondi diversi: da un lato un prodotto locale, creativo e legato all’esperienza ludica; dall’altro un marchio globale, supportato da una strategia internazionale. Due approcci che, intrecciandosi, hanno segnato l’immaginario di più generazioni di consumatori.
1980 - 2025 Cin Cin - L’aperitivo come moda: viaggio tra i cocktail che hanno fatto epoca
Quei pochi che mi seguono sanno che mi occupo di pubblicità delle decadi ’60-’90, ma oggi è necessario ampliare lo sguardo per parlare dell’immagine sociale del bere e di come la pubblicità abbia influenzato tutto questo.
Negli ultimi quarant’anni il bere alcolici si è trasformato da gesto privato a spettacolo pubblico, da scelta di gusto a linguaggio sociale. Il bicchiere in mano è diventato accessorio, segno di appartenenza, dichiarazione di stile. Le mode si sono susseguite con rapidità quasi stagionale, fino a rendere il cocktail non tanto una bevanda quanto un simbolo da mostrare.
Tutto comincia negli anni Ottanta, quando la celebre campagna della Ramazzotti lanciò l’immagine della “Milano da bere”. Non era un drink specifico, ma un intero stile di vita costruito attorno al bicchiere. Whisky, Martini dry e Campari divennero icone della nuova classe emergente: cosmopolita, rampante, desiderosa di ostentare. Negli anni Novanta il mondo delle discoteche impose cocktail zuccherini e spettacolari come Long Island Iced Tea, Tequila Sunrise e Sex on the Beach. La notte si alimentava anche con il mix di vodka e Red Bull, carburante chimico che faceva ballare fino all’alba, mentre non mancavano riti scenografici come il B52 da incendiare o l’Angelo Azzurro, eredità degli anni Settanta. Parallelamente la birra Corona con lime conquistava i giovani come simbolo di leggerezza internazionale, grazie a campagne pubblicitarie che esaltavano spiagge e libertà.
Con l’inizio dei Duemila si afferma una nuova icona globale: il Mojito. Dalla Cuba di Hemingway alle spiagge di Ibiza, diventa il cocktail dell’estate per eccellenza, rilanciato anche da Madonna. Accanto a lui, Caipirinha e Caipiroska seguono la scia latina, mentre il Prosecco si trasforma in fenomeno planetario, bevuta popolare e chic, aprendo la strada a un nuovo modo di intendere l’aperitivo.
Il decennio successivo è dominato dall’Aperol Spritz, imposto su scala mondiale da campagne di marketing che hanno fatto scuola. L’arancione brillante nei calici diventa sinonimo di socialità e tramonti condivisi. A metà degli anni Dieci arriva il Moscow Mule, rilanciato dai locali hipster e reso virale dall’iconico bicchiere di rame, subito diventato accessorio da fotografare e condividere. Nello stesso periodo il Gin Tonic, rivisitato in chiave premium, diventa bevuta “da intenditori”, aiutato anche dal cinema: James Bond, nell’interpretazione di Daniel Craig, lo sceglie spesso al posto del Martini.
Negli anni Venti la mania del gin si consolida con micro-distillerie e gin bar specializzati. Lo Spritz si reinventa in varianti come l’Hugo, mentre dagli Stati Uniti arrivano gli hard seltzer, bevande leggere per un pubblico alla ricerca di alcolici “healthy”. Crescono anche i cocktail analcolici curati nell’estetica, dimostrazione che oggi conta più l’immagine del bicchiere che il contenuto stesso.
Le mode si consolidano grazie alla pubblicità e ai volti noti. “No Martini, No Party”, con Charlize Theron, ha reso il Martini sinonimo di esclusività. Campari ha costruito il proprio immaginario internazionale con Salma Hayek ed Eva Green. George Clooney, con Nespresso e il tequila Casamigos, ha dimostrato come una star possa trasformare una bevanda in lifestyle. Corona ha imposto il rituale del lime, mentre Aperol ha diffuso il suo arancione in ogni piazza. La comunicazione ha reso ogni cocktail un oggetto estetico, una piccola icona da ostentare e condividere.
Questa storia dimostra come il bere non sia mai stato solo questione di gusto. Ogni epoca ha avuto il suo bicchiere simbolo, codice sociale e biglietto da visita. In fondo, ciò che conta non è quasi mai il contenuto del calice, ma il messaggio che manda. Bere è sempre stato, prima di tutto, immagine. Basta una passeggiata sui social per rendersene conto.
1962 - Il Supersantos
Il mito arancione del Super Santos: storia, successo e rinascita ecologica del pallone più amato dagli italiani
Nato quasi per caso e diventato un’icona popolare, il Super Santos è molto più di un semplice pallone: è il simbolo dell’infanzia di intere generazioni, il compagno inseparabile di partite improvvisate in strada, al parco o sulla spiaggia. Ma da dove arriva questo piccolo mito arancione? Chi lo ha inventato? E perché, ancora oggi, suscita emozione e nostalgia?
Il Super Santos venne ideato il 3 agosto 1962 da Stefano Seno, operaio della torinese Mondo S.p.A., azienda fondata nel 1948 da Edmondo Stroppiana. L’intuizione nacque sull’onda dell’entusiasmo per la vittoria del Brasile ai Mondiali di calcio: un pallone che incarnasse lo spirito del gioco e dell’estate, accessibile a tutti e pronto a rotolare ovunque. Da quel momento, la Mondo sarebbe diventata un punto di riferimento nel settore dei giocattoli e degli articoli sportivi.
Realizzato in PVC arancione acceso, con le classiche strisce nere in bassorilievo ispirate ai vecchi palloni di cuoio, il Super Santos pesava circa 280 grammi e misurava 23–24 centimetri di diametro, per un volume interno di circa sette litri. Il processo produttivo era tanto semplice quanto ingegnoso: iniezione del PVC liquido in stampi rotanti, cottura, raffreddamento, gonfiaggio automatico e chiusura del foro con un piccolo chiodino di plastica. Le strisce nere venivano applicate con un tampone flessibile che, adattandosi alla superficie sferica, generava inevitabili sfasamenti: piccole imperfezioni che col tempo divennero parte integrante del suo fascino.
Venduto inizialmente a 350 lire, divenne fin da subito un successo popolare. In strada, sui campetti improvvisati, in spiaggia: ovunque ci fosse spazio per rincorrere un pallone, c’era un Super Santos. Il suo comportamento imprevedibile, con traiettorie “infide” e spettacolari, aumentava il divertimento e la sfida tra amici. A oggi si stima siano stati venduti oltre 15 milioni di esemplari, rendendolo uno dei palloni più distribuiti al mondo. Ma non era solo un oggetto da gioco: era una dichiarazione d’indipendenza infantile, un modo per prendersi la città e trasformarla in stadio.
La comunicazione pubblicitaria era minimalista, ma potentemente evocativa: il colore arancione brillante, slogan brevi e immagini capaci di riportare alla mente partite al tramonto, sfide tra amici, sabbia e sole. Non c’era bisogno di testimonial: il protagonista era lui, il pallone. Frasi come "un pallone per ogni bambino" o "l’estate italiana in sfera" raccontavano tutto. Il messaggio era chiaro e diretto: chiunque poteva giocare, ovunque, senza barriere economiche o sociali.
Il successo del Super Santos si spiega anche con la sua diffusione capillare. Lo si trovava ovunque: nei tabaccai, alle edicole, nei supermercati, sulle bancarelle dei mercati rionali. Il design iconico lo rendeva immediatamente riconoscibile, una sorta di piccolo sole che rotolava per le strade dell’Italia del boom economico. La sua leggerezza lo rendeva sicuro anche per i più piccoli, e riduceva il rischio di rompere vetri o farsi male. Ma ciò che davvero lo ha consacrato è la carica simbolica: è entrato nelle canzoni, nei racconti, nei fumetti. È diventato memoria collettiva.
Nel 2021, la Mondo ha rilanciato il Super Santos in versione ecologica con la linea BioBall: palloni prodotti con il 50% di materie vegetali, riciclabili, privi di ftalati e ancora più elastici nella giocabilità. Una rivoluzione sostenibile che ha ricevuto la certificazione “Ok Bio-Based” dal TÜV Austria, oltre a verifiche scientifiche come l’analisi del carbonio-14 a cura del laboratorio Beta Analytic. È il passato che incontra il futuro, senza perdere il sorriso.
Non mancano curiosità legate a questo oggetto divenuto iconico. Il cantante Tony Tammaro gli ha dedicato una canzone intitolata proprio “Supersantos”, mentre il fumettista Germano Massenzio lo ha omaggiato in una sua opera pubblicata il 15 agosto, dove il leggendario pallone arancione campeggia fiero fin dalla copertina.
Oggi il Super Santos non è soltanto un oggetto da spiaggia o un passatempo per bambini. È un simbolo di libertà, socialità e creatività. È il rumore della palla che rimbalza sull’asfalto, la corsa a piedi scalzi sulla sabbia, il sudore e la felicità di un pomeriggio d’estate. In un mondo sempre più digitale, il Super Santos resta un’icona tangibile e indelebile dell’Italia che giocava per strada. Per la sua potenza evocativa e il design universale, meriterebbe di essere esposto al MoMA di New York. E forse anche di più.
Fammi sapere se vuoi aggiungere immagini, citazioni da fonti o impaginare il tutto in stile rivista.
“Thinsemal”: quando una pronuncia sbagliata fece la storia della pubblicità italiana
“Thinsemal”: quando una pronuncia sbagliata fece la storia della pubblicità italiana
Dallo spot cult degli anni ’80 al marchio con l’H misteriosa: storia e curiosità sulla carne in scatola Simmenthal, icona pop della tavola italiana
Chi ha vissuto l’infanzia negli anni Ottanta non può dimenticare Luca, il bambino protagonista di uno degli spot più celebri della televisione italiana. Con voce tenera e un’inflessione infantile irresistibile, chiedeva alla mamma:
«Mamma, mi dai la Thinsemal?»
Un errore di pronuncia diventato subito un tormentone generazionale, tanto da essere ricordato ancora oggi come uno dei casi pubblicitari più riusciti e amati. Ma dietro quella storpiatura involontaria si nasconde una storia tutta italiana, fatta di intuizioni imprenditoriali, scelte di marketing intelligenti e un prodotto rimasto pressoché invariato per oltre un secolo.
La Simmenthal nasce nel 1923 per iniziativa di Gustavo Venosta, imprenditore milanese con un’idea rivoluzionaria per l’epoca: confezionare carne bollita in gelatina aromatica, in modo da garantirne la lunga conservazione senza refrigerazione. Un vero "bollito pronto", pensato per semplificare la vita in cucina. Il primo stabilimento aprì a Montana di Macherio, in provincia di Monza e Brianza, e il successo fu immediato.
Il nome Simmenthal è una rielaborazione italiana del termine tedesco “Simmental”, che indica la valle del fiume Simme, nel Canton Berna, in Svizzera. In tedesco, “Tal” significa “valle”, quindi Simmental si traduce letteralmente in “valle del Simme”. Venosta aggiunse una “H” finale per italianizzare il nome, conferirgli una sonorità più forte e straniera (cosa che all’epoca trasmetteva prestigio), e soprattutto registrare un marchio unico e riconoscibile. Una scelta che si rivelò vincente anche dal punto di vista grafico e commerciale.
La carne utilizzata è bovina magra, principalmente muscolo, cotta e immersa in una gelatina aromatica a base di brodo vegetale. Questa gelatina, oltre a donare sapore, svolgeva originariamente un ruolo fondamentale: conservare la carne senza bisogno del frigorifero. Ogni scatoletta contiene circa 80 grammi di prodotto, con un contenuto dalla forma inconfondibile: uno sformato rosa di carne circondato da gelatina giallo-trasparente. Un’immagine impressa nella memoria collettiva di intere generazioni.
Lo spot in cui Luca chiede alla madre la carne Simmenthal, pronunciandola “Thinsemal”, andò in onda per la prima volta nel 1983, realizzato dall’agenzia JWT Italia (J. Walter Thompson). Il piccolo attore si chiamava davvero Luca, ma il cognome non è mai stato reso noto per motivi di privacy. La scena, ambientata in cucina, era semplice e quotidiana. Eppure colpì nel segno. La pronuncia sbagliata non fu corretta né doppiata: era autentica, frutto della difficoltà naturale di un bambino nel pronunciare un nome inconsueto. Ma fu proprio quella spontaneità a conquistare il pubblico e a trasformare lo spot in un piccolo cult televisivo.
A rafforzare la riconoscibilità del prodotto contribuì anche il suo celebre packaging: la scatoletta rossa con il toro dorato stilizzato al centro è diventata uno dei simboli più iconici dell’alimentare italiano. Il toro, simbolo di forza ed energia, rappresenta la qualità del prodotto e la solidità del marchio. Il logo è rimasto praticamente immutato per decenni, a testimonianza di un’identità visiva forte e duratura.
Non tutti ricordano, infine, una curiosità legata agli anni Settanta: esisteva un gadget promozionale Simmenthal pensato per i bambini, una riproduzione giocattolo della scatoletta che, se capovolta, emetteva un muggito. Un oggetto bizzarro e divertente, molto popolare all’epoca, oggi diventato piccolo oggetto da collezione.
La storia della Simmenthal è quella di un prodotto nato da un'intuizione semplice ma efficace, capace di diventare un’icona del Made in Italy non solo per la sua praticità e il gusto inconfondibile, ma anche grazie a una comunicazione pubblicitaria che ha saputo entrare nella memoria — e nella lingua — degli italiani.
anni 80 - La Dottoressa Alma Manuela Tirone: Un’Icona della Nutrizione Italiana Alma Manuela Tirone, conosciuta come la “Dottoressa Tirone”, è stata una figura d
Alma Manuela Tirone, conosciuta come la "Dottoressa Tirone", è stata una figura emblematica della televisione italiana degli anni '80 e '90. Nata a Napoli il 29 gennaio 1952, si è laureata in medicina nel 1976, specializzandosi in endocrinologia e diventando un'affermata dietologa.
La sua fama è esplosa grazie a numerose apparizioni in programmi televisivi, dove presentava le sue innovative diete, come la Dieta Minilinea, la Dieta Express e la Dieta Blocca-Peso, che hanno ottenuto vendite straordinarie e l'hanno portata a diventare un'icona del benessere. Ha pubblicato diversi libri di successo che hanno conquistato il pubblico, contribuendo a una visione più sana dell’alimentazione.
Tuttavia, la sua carriera è stata segnata da controversie. Nel 1989, al culmine del suo successo, è stata coinvolta in un caso di appropriazione indebita e bancarotta, ma è stata successivamente assolta. Questo evento ha avuto un impatto negativo sulla sua reputazione e ha segnato l'inizio di un declino nella sua carriera.
La sua vita personale è rimasta avvolta nel mistero, soprattutto dopo la sua morte avvenuta il 16 marzo 2008 a Roma. Nonostante i rapporti di stampa, la notizia del suo decesso è emersa solo mesi dopo, alimentando speculazioni e interrogativi sul suo stato di salute e sulla sua vita privata. Voci hanno suggerito che potesse essere viva e in incognito.
Attualmente, riposa in una tomba semplice a Benevento, dove ha richiesto che le sue iniziali AMT e le date di nascita e morte siano le uniche informazioni presenti. La sua storia è un esempio di come una carriera brillante possa essere segnata da alti e bassi, lasciando dietro di sé un'eredità complessa e una serie di misteri irrisolti.
Curiosità: Il cantante ironico Tony Tammaro cita la Dottoressa Tirone nella canzone "La Pubblicità" con il verso: "Ogni sera 'na tisana d''a Tirone, se ne scenne 'o pantalone."
1965 - Il Telefono Grillo: Un’Icona di Innovazione e Design Italiano
Nel 1965, il panorama delle telecomunicazioni subì una trasformazione radicale con il lancio del telefono Grillo, un apparecchio che non solo cambiò il modo di concepire il telefono, ma divenne anche un simbolo di innovazione nel design. Ideato dai rinomati designer italiani Marco Zanuso e Richard Sapper, il Grillo si distinse per il suo innovativo formato "a scatto", che permetteva di aprirlo e chiuderlo a conchiglia. Questa soluzione ingegnosa non solo lo rendeva pratico, ma anche estremamente compatto, perfetto per l’uso con una sola mano.
Un Design Funzionale e Moderno
Prodotto dalla SIP (Società Italiana per l'Esercizio Telefonico) in collaborazione con Italtel, il Grillo era progettato per essere semplice e funzionale, senza compromettere l'estetica. La sua struttura elegante e le dimensioni ridotte lo resero subito popolare, trasformandolo in un’icona del design italiano negli anni '60. Il Grillo non era solo un telefono, ma un accessorio di stile che rappresentava il gusto e l’innovazione dell’epoca.
Impatto Culturale e Ritorno al Futuro
Negli anni, il telefono Grillo ha mantenuto la sua rilevanza, diventando un oggetto da collezione. La sua forma unica e il suo design distintivo lo hanno reso un simbolo della cultura pop italiana, con una presenza che va oltre la semplice funzionalità. Recentemente, il Grillo ha conosciuto un nuovo rinascimento, con una serie di edizioni limitate che celebrano il suo legame con il passato e la sua attualità nel mondo del design contemporaneo.
Oggi, il telefono Grillo è spesso esposto in mostre di design e musei, dove continua a ispirare nuove generazioni di designer e appassionati. La sua influenza può essere vista in molti dispositivi moderni, dimostrando che le idee innovative e il buon design sono sempre attuali.
Conclusione
In un mondo in continua evoluzione, il telefono Grillo rappresenta un perfetto connubio tra funzionalità ed estetica, un esempio di come il design possa trasformare oggetti quotidiani in vere e proprie opere d’arte. La sua storia è una testimonianza dell’ingegno italiano e della capacità di innovare, qualità che continuano a caratterizzare il design Made in Italy.
Cinzano: 260 Anni di Storia e Tradizione
l nome Cinzano risale al 1568, quando la famiglia avviò la produzione di rosolio nel borgo di Pecetto Torinese. Nel 1707, Giovanni Battista Cinzano ottenne la licenza per vendere i suoi elisir a Torino, e nel 1757 i suoi eredi aprirono una bottega nel cuore della città. Dal 1786, Cinzano brillava come miglior produttore di Vermouth grazie al riconoscimento dei Savoia, che incentivarono le sue sperimentazioni.
L’azienda, che divenne ufficialmente tale nel 1817 con Francesco Cinzano, ha attraversato varie fasi storiche, con un marchio iconico registrato nel 1914 e influenze artistiche negli anni Venti. Oggi, Cinzano è un nome globale sotto il gruppo Campari. Per celebrare i 260 anni, l'azienda ha lanciato l'Alta Langa DOCG Cuvée Vintage 2009, un raffinato spumante che ha brillato alla Cena di Gala di Torino, continuando a fondere tradizione e innovazione con eleganza
Ovviamente in questa sede ci occuperemo degli anni 60 70 e della loro comunicazione commerciale.
60 -70 pubblicità di genere dal sessismo all'emancipazione femminile - Parte 2
1969 - Grappa Fior di Vite Ramazzotti: Una Pubblicità Provocatoria
Nel 1969, la campagna pubblicitaria per la Grappa Fior di Vite Ramazzotti utilizzava un claim audace: "Una bionda nel sacco." Il messaggio descriveva la grappa come "bionda naturale, forte e gentile," con un "corpo" morbido e caldo, suggerendo una promozione sottile e stimolante. Il testo aggiungeva che la grappa era "nel sacco fino al collo," giocando su doppi sensi e suggestioni.
Questa pubblicità, pur essendo ingegnosa, riflette l’approccio provocatorio dell’epoca e il modo in cui il marketing poteva giocare con le connotazioni e le immagini
Nel 1970, la pubblicità dei collant Mini Block
giocava con un claim ironico: "Perfetta tenuta nelle curve". Nonostante l'immagine di una macchina, il messaggio si riferiva in realtà alla qualità dei collant.
Il claim sfrutta un gioco di parole per mettere in risalto la capacità del prodotto di adattarsi perfettamente alle forme del corpo, mostrando come il marketing dell'epoca utilizzasse strategie creative e sorprendenti per attirare l'attenzione.
Ecco una versione concisa e giornalistica del tuo testo:
1970 - "Scappa con Superissima": Una Pubblicità Storica
"Scappa con Superissima" è una pubblicità che ha fatto storia, nota per la sua versione orizzontale. Questo claim iconico ha catturato l'immaginazione del pubblico con il suo messaggio distintivo e l’approccio creativo.
Nel 1969, il claim della pubblicità di calze Sisi recitava: "La liberazione sessuale è un paio di calze Sisi." Questa frase audace giocava con il concetto di emancipazione e libertà, suggerendo che la moda potesse essere un simbolo di liberazione.
Un esempio di come la pubblicità dell’epoca utilizzava il provocatorio per attrarre l'attenzione e riflettere i cambiamenti sociali.
1970 - "Il Collezionista": Il Dopobarba che Cambiava Tutto
L’uomo che indossava questo dopobarba diventava subito "il collezionista". Ma cosa rendeva così speciale questo prodotto?
Pubblicità Sessista: Vidal e il "Grande Incontro"
La pubblicità di Vidal del passato presenta un claim che oggi sarebbe considerato inaccettabile. Con il messaggio "Preparati al grande incontro" e il sottotitolo "Metti la KO", lo spot mostra una donna in una posizione di bondage, affaticata e in una postura discinta.
Questa campagna, purtroppo, riflette i concetti maschilisti e sessisti dell'epoca. Sebbene possa sembrare ironica, è un esempio di pubblicità che oggi non sarebbe più tollerata, sottolineando l'importanza dei cambiamenti nella sensibilità sociale e nella pubblicità.